Page 2945 - Shakespeare - Vol. 3
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ricorre  infine  allo  sdegno,  all’accusa,  all’appello  al  legame  di  sangue  e  di  stirpe,  al  sarcasmo  e  al
                 disconoscimento del figlio, che a questo punto cede in silenzio.
              50 V,  iii,  127-128  La  breve  battuta  del  piccolo  Marzio  lo  rivela  come  erede  della  nonna  e  del  padre,
                 insieme coraggioso e machiavellico.

              51 V, iii, 129-131 Coriolano resiste come può, ricorrendo qui, si direbbe, a una gelida massima rimata
                 per esorcizzare la propria commozione.

              52 V, iii, 183-190 Nel silenzio di Coriolano seguìto da questa battuta famosa è la sua Sternstunde. Egli
                 accetta, prevedendo chiaramente la fine, la situazione «innaturale» su cui gli dei ridono. Innaturale e
                 ossimorica,  perché  la  madre,  cui  il  figlio  cede  seguendo  i  dettami  della  Natura,  manda  il  figlio  alla
                 morte senza batter ciglio; perché una donna vince il condottiero invincibile; perché l’eroe «costante»
                 vi è incostante e traditore per la seconda volta (anche se si rifiuterà di ammetterlo sino alla fine). A
                 questa  accettazione  del  destino  Aufidio  assiste  con  la  sua  ermetica  laconicità:  forse  commosso
                 davvero ma anche pronto a distruggerlo.
              53 V, iv Mentre Coriolano s’avvia a portare ai volsci la sua cattiva novella, a Roma la buona novella
                 della vittoria di Volumnia arriva e capovolge le sinistre previsioni o certezze di Menenio. Il clima di
                 catastrofe si rovescia in un clima di festa.

              54 V,  v  Una  scena  infelicemente  tagliata  che  può  ben  essere  la  conclusione  della  precedente.  E
                 sembra, come è stato detto, la controparte ironica del ritorno trionfale di Coriolano a Roma in II, i.

              55 V,  vi  Plutarco  pone  la  scena  ad  Anzio  con  verosimiglianza,  perché  la  città  è  la  capitale  alla  quale
                 ritorna l’esercito dopo la fallita campagna. Allusioni a questa localizzazione sono ai versi 50, 73 e 80.
                 Anche Rowe (1709) l’accetta e dopo di lui la maggiore parte dei curatori. Ma nella sua edizione del
                 1826  S.W.  Singer,  fondandosi  su  quanto  dice  Aufidio  ai  vv.  88-90,  preferisce  porre  la  scena  a
                 Corioli, e vari editori moderni, inclusi Hibbard e Brockbank, lo seguono volentieri vedendo in questa
                 soluzione un sicuro e affascinante vantaggio drammatico: nel nome stesso di Coriolano sarebbe così
                 segnato  il  suo  destino.  Scrive  lo  Hibbard  a  p.  253  della  sua  edizione  (Penguin):  «Sembra  che
                 Shakespeare  abbia  cominciato  questa  scena  finale  con  in  mente  la  stessa  localizzazione  (cioè  la
                 stessa di Plutarco, Anzio)... Poi, quando venne a scrivere la battuta di Aufidio che comincia col v.
                 88,  egli  si  rese  conto  improvvisamente,  nel  corso  della  composizione,  come  drammaticamente
                 sarebbe stata assai più appropriata (la localizzazione) a Corioli, e operò lo slittamento, ben sapendo
                 che nessun pubblico avrebbe mai notato i riferimenti precedenti ad Anzio. Il dramma ha compiuto
                 un cerchio perfetto. Ancora una volta Coriolano è tornato sulla scena della sua vittoria, “da solo”
                 com’era  stato  a  I,  iv,  per  affrontarvi  tutta  la  città».  Purtroppo,  a  me  pare  inaccettabile  questa
                 affascinante ipotesi, che corroborerebbe il peso del destino in questa visione tragica e la mia stessa
                 lettura. Essa mi pare fondata difatti su una lettura troppo forzata dei versi, certo ambigui, di Aufidio
                 88-90. Che in realtà mi pare vogliano dire: «Sì, Marzio, Caio Marzio! O credi che ti farò bello di quel
                 tuo furto, di quel tuo nome Coriolano, che hai rubato a Corioli?», e non come leggono Brockbank e
                 Hibbard: «... che io ti farò bello (qui) a Corioli del tuo nome rubato, Coriolano?». Diciamo dunque
                 che la scena è ad Anzio, e che il destino «greco» di Coriolano è ben chiaro anche senza quest’ultima
                 ironia della Moira o di Tyche.
              56 V,  vi,  100  «Hear’st  thou,  Mars?».  L’invocazione  al  dio  protettore  resta  senza  risposta.  Come
                 Antonio in Antony and Cleopatra, Coriolano è stato abbandonato dal suo dio.
              57 V, vi, 131 Brockbank nota che il grido dei cospiratori richiama il grido di battaglia dei romani («Feri,
                 feri»  com’è  detto  nella  Vita  plutarchea  di  Marcello).  A  questo  urlo  di  morte  segue,  con  terribile
                 effetto  drammatico,  la  caduta  silenziosa  dell’eroe,  e  il  gesto  di  Aufidio  che  gli  sale  addosso,
                 rovesciando l’auspicio pieno di sicumera della madre (I, iii, 48-49).
              58 V, vi, 143-156 È la solita celebrazione finale dell’eroe che troviamo, con qualche eccezione (Richard
                 III, Macbeth) nelle tragedie di Shakespeare. Non è necessario, credo, considerare falso e ipocrita il
                 rincrescimento  di  Aufidio:  può  essere  sincero,  anche  se  forse  nello  stesso  tempo  interessato  e
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