Page 2949 - Shakespeare - Vol. 3
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sempre in Shakespeare, limitare l’area di significato del personaggio, e ancor
più dell’opera, a una categoria psicologica. Se Timone, sulla scorta delle fonti
(Plutarco, Painter, e specialmente Luciano), è il “tipo” del misantropo («Sono
misantropo e odio l’umanità»); e se Shakespeare caratterizza tale sua natura
con l’ineguagliata conoscenza delle passioni umane che gli è propria; tuttavia
egli va ben al di là di questo particolare problema (come, nelle “grandi
tragedie” e nel Coriolano, va ben al di là della gelosia, dell’ambizione,
dell’ingratitudine filiale, della passione amorosa, dell’egoismo), per affrontare
il più vasto tema del destino dell’uomo, del suo rapporto col mondo. E il
rapporto di Timone, membro di una civiltà ormai decaduta, col mondo nuovo
in cui vive, è basato, come quello di Otello, sull’illusione, sull’utopia (Le
utopie e la storia, intitola appunto R.M. Colombo il suo saggio sull’Otello).
Timone non è re, non è principe; in questa Atene di cui porta fatalmente il
nome egli è figura rilevante ma non centrale, un uomo che per ora, come dice
all’inizio del dramma un Poeta, è “il favorito” della Fortuna ma che potrebbe
d’un colpo precipitare dalle altezze cui è pervenuto. E tuttavia non solo vive
ignorando il girare della ruota della Fortuna (motivo medioevale ma anche
emblema di una società mercantile) e illudendosi della permanenza, della
eternità del suo stato, ma anche vive ispirandosi ad una utopia di qualità
rinascimentale (o, se si vuole, periclea) in cui il Signore, essere perfetto e
completo, sia al centro di un universo altrettanto armonioso. «Nobile spirito»,
«uomo incomparabile», «eccelso», «compiuto gentiluomo», «uomo d’onore»
dalla «virtù illustre»: così egli viene definito, tale si sforza e crede di essere; e
la sua casa appare come una vera e propria corte, degna del Cortegiano, in
cui Timone è circondato e riverito dai rappresentanti di tutti i ceti della
società: il Poeta e il Pittore, il Mercante, il Gioielliere, i Senatori, gli uomini
d’arme. Qui egli si muove, soddisfatto di sé e del mondo, circondato, lui che è
privo di famiglia, da una folla di cortigiani e clienti, continuamente elargendo
doni, continuamente offrendo, e cercando, amicizia − quasi a rimuovere la
solitudine che è invece la sua condizione. E un inno all’amicizia è uno dei
momenti culminanti della prima parte del dramma (davvero “sperimentale”,
come osserva G. Melchiori, ma anche costruito secondo una geometria che
deriva direttamente dalle moralità medioevali): «Noi siamo nati per fare il
bene, e che cosa potremmo definire nostro meglio e più propriamente della
ricchezza dei nostri amici? Avere tante persone che, come fratelli, dispongono
l’una delle fortune dell’altra è un conforto prezioso!»; e tanto più che esso
viene elevato in una scena di banchetto che, concludendosi con la musica, la
danza, le figurazioni di un masque, non solo è immersa in quell’aura di ricca