Page 2953 - Shakespeare - Vol. 3
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“doppio”, l’oro non serve: tornato ad Atene svolgerà la sua funzione consueta
          − e del resto la svolge anche qui, mettendo a nudo i lineamenti di Satana nel
          ritratto di sé che Timone va dipingendo, individuando il peccato di superbia
          che sta commettendo («Sei ancora superbo?»). E di superbia, infatti, sono gli

          ultimi gesti puritani di Timone: il disprezzo e le pietre di cui copre il Poeta e il
          Pittore,  le  cui  opere  adulatrici  prima  lo  lusingavano  (e  di  nuovo  s’impenna
          Shakespeare contro l’arte mediocre); il rifiuto di acconsentire all’offerta dei
          Senatori di tornare, desiderato e acclamato, ad Atene.

          Un  rifiuto  che  è  la  sola  azione  −  una  non-azione,  ancora  una  volta  −  che
          Timone sa compiere, perché la sua sola arma è stata la parola, il suo solo
          strumento il linguaggio. Ma il linguaggio − pur se usato con una creatività e
          una  energia  che  possono  essere  solo  di  Shakespeare  −  non  ha  mutato  il

          corso della storia, non ha modificato la realtà. Il linguaggio ha solo costruito
          un’altra  illusione,  e  la  ribellione  di  Timone  si  spegne  con  l’esaurirsi  delle
          parole. Aveva detto Iago, dopo la cattura: «Non dirò più parola»; e Timone:
          «Labbra / Fate uscire quattro parole e poi / Il linguaggio finisca». Ma se la

          trasgressione di Iago aveva prodotto, come quella di Satana, distruzione e
          sangue, se la trama d’inganni da lui intessuta con la parola aveva ferito il
          mondo,  quella  di  Timone  non  lo  ha  scalfito,  non  ha  spostato  l’impassibile
          immobilità dell’oro. Sconfitto Titano verbale, il percorso di Timone è stato un

          percorso  nell’assenza,  cammino,  come  nelle  moralità  medioevali,  verso  la
          morte  (e  l’avevano  segretamente  scandito  le  immagini  di  morte  che
          attraversano il dramma). «Sole, nascondi i tuoi raggi. / Timone ha finito il suo
          regno»,  esclama  in  un  ultimo  guizzo  d’orgoglio  che  si  placa  in  una

          macbethiana  estenuazione  («Sono  stanco  di  questo  mondo  falso»),  ed  egli
          non  può  che  morire  −  ma  di  una  morte  che  non  vediamo,  di  cui  mai
          conosceremo  le  modalità,  accanto  ad  un  mare  che  non  lo  redimerà  ma
          annullerà.  Di  lui  rimarranno  le  parole  che  egli  stesso,  non  altri,  scrive:

          l’epitaffio che legge un Soldato («È morto Timone, che ha finito il suo tempo.
          / Legga una bestia. L’uomo non c’è più.»); quello decifrato da Alcibiade che
          ha conquistato Atene («Qui giaccio io, Timone, / Che, vivo, tutti i vivi odiai.»).
          Ma  saranno  soltanto  parole.  Su  di  lui  «altro  più  avanti»,  dice  Alcibiade

          volgendosi  agli  affari  di  stato  −  ad  una  realtà  alla  quale  Timone  non  ha
          saputo opporre l’azione ma lo sterile, incruento sogno dell’utopia. La sua sola
          realtà è stata quella del teatro − ma non un’azione tragica ha potuto, qui,
          mettere in scena bensì la fine di un genere, l’impossibilità di far tragedia, ad

          Atene come a Londra.
                                                                                           AGOSTINO LOMBARDO
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