Page 2941 - Shakespeare - Vol. 3
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e falsificante.

              19 I, ix, 19-27 In questa e nelle sue battute successive Cominio dà a Coriolano una mirabile lezione sui
                 doveri di un romano, smaschera con moderazione ed eleganza il suo errore di egocentrismo e di
                 «solitariness» (come scriveva il North traduttore di Plutarco), con una finale allusione sferzante alla
                 sua «follia» e alla cura adeguata (ai vv. 54-57).
              20 I, ix, 41-52 Coriolano accusa gli altri di iperbolicità proprio mentre il suo eccesso iperbolico arriva alla
                 falsificazione dei fatti. Ma gli dei rideranno di lui e l’ironica Moira lo porterà alla fine a vantare le sue
                 imprese  davanti  ai  Volsci  (V,  vi,  114-116)  violando  la  sua  reticenza  e  il  suo  riserbo,  e  ad  essere
                 oggettivamente traditore della patria e poi del nemico di cui si è reso servo.

              21 I,  ix,  78  sgg.  L’episodio  dell’ospite  di  Corioli  che  Marzio  vuole  salvare  dalla  prigionia  ma  di  cui
                 dimentica  il  nome  immette  nell’eroe  una  nota  creaturale  di  stanchezza  e  di défaillance. Forse
                 quell’invidia degli dei di cui parla il Troilus and Cressida  (IV, iv, 23 sgg.) fa vacillare l’eroe, e di qui il
                 forte riferimento al divino al v. 78 («The gods begin to mock me») come al solito trascurato dai
                 critici.

              22 I, x La scena è prolettica, anticipa il complotto finale di Aufidio, e mostra nell’avversario di Coriolano
                 una natura di machiavellico e di violento.

              23 II, i Il secondo atto è di circa 100 vv. più breve del primo, e le sue tre scene coincidono coi tre
                 movimenti dell’azione: 1. Ritorno trionfale di Coriolano a Roma. 2. Coriolano è convinto dai nobili a
                 candidarsi  console  rispettando  la  prassi  tradizionale  della  richiesta  dei  voti  al  popolo.  3.  Coriolano
                 riceve  i  voti  ma  la  plebe  si  rende  conto  del  suo  disprezzo  e  li  rinnega.  Si  tratta  di  un  unico
                 movimento che si continua negli episodi, sempre in pubblico, del III atto, e il motivo dominante è
                 l’opposizione tra l’idealismo di Coriolano e il machiavellismo dei politici.
                 Nella  prima  scena,  la  grande  sfottitura  dei  tribuni  operata  da  Menenio  non  fornisce  armi
                 all’interpretazione  che  vede  Shakespeare  schierato  coi  nobili  contro  i  tribuni  visti  come  personaggi
                 biechi, squallidi e ridicoli. Questo è il punto di vista di Menenio, di Coriolano e degli altri patrizi. In sé, i
                 due tribuni sono piuttosto personaggi brechtiani, plebei per i quali «prima viene il mangiare, poi viene
                 la morale». La sfiducia e il sospetto nei riguardi degli aristocratici, ormai incluso anche Menenio, sono
                 assoluti per i due tribuni. Per quanto riguarda la controparte, il loro motto potrebbe essere un altro
                 detto di Brecht: «Se scorgi una luce in fondo a un tunnel affrettati a saltare da un lato, si tratta di
                 un treno espresso che sta per investirti». Messi con le spalle al muro dalle vittorie di Coriolano, come
                 farebbe ogni politico corrono ai rimedi istigandogli contro, e con ragioni ben fondate, la plebe.

              24 II, i, 170-172 Mentre si rivolge, con le sue più tenere parole, a Virgilia, che pare l’incarnazione del
                 rispetto verecondo e del sacro pudore di fronte agli dei, Coriolano tuttavia, e nello stesso tempo,
                 rivela inconsciamente la propria crudeltà, evocando le vedove e le madri di Corioli alle quali egli ha
                 tolto  mariti  e  figli.  Versi,  dice  P.  Brockbank,  terribili  e  detti  con  tenerezza,  versi,  dice  Jan  Kott,
                 «improvvisamente oggettivi».
              25 II,  i,  197-213  La  lunga  battuta  o récit di  Bruto  appartiene  ai  momenti  corali  sparsi  nelle  opere  di
                 Shakespeare,  nei  quali  momenti  l’azione  passa  alla  narrativa  interna  e  alla  stessa  invenzione
                 linguistica, sganciandosi dal carattere dello speaker.

              26 II, ii, 80-120 Nel récit di Cominio appare l’immagine sovrumana di Coriolano come forza della natura,
                 già  preannunciata  a I,  i,  151-4  nelle  parole  di  Volumnia,  infine  ripresa  da  Cominio  stesso  e  da
                 Menenio nell’ultimo atto (V, i, 13-15, V, iv, 18-24): costruzione politica di un mito o proiezione mitica
                 materna  o  della  paura  o  dello  stesso  superio  dell’eroe,  essa  si  contrappone  violentemente
                 all’immagine debole e pietosa che varie volte la tragedia, specie nella seconda parte, ci presenta del
                 protagonista. Con un rapporto che è quello delle immagini conflittuali nella figura dell’ossimoro.
              27 II, iii La scena nel Foro, dove Coriolano chiede i voti ai cittadini indossando con disprezzo e superbia
                 la  toga  dell’umiltà,  porta  al  suo  centro  (vv.  111-123)  il  primo  dei  rari  soliloqui  di  Coriolano,  uomo
                 d’azione  e  di  reazioni  impulsive  la  cui  coscienza  stenta  a  esprimersi  in  parole,  i  cui  conflitti  interni
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