Page 2581 - Shakespeare - Vol. 3
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−  non  realizzata  ma  perfettamente  realizzabile  −  è  prova  della  polisemia
          dell’opera, la quale in effetti mostra, senza giudicare, eventi e atteggiamenti
          umani in tutta la loro ambiguità, e il comportamento singolo e collettivo nella
          passione  di  quell’agire  politico  che,  insegnava  Machiavelli,  è  cosa  diversa

          dalla morale e spesso anche dalla razionalità.
          Ma  tutte  queste  posizioni  suonano  meno  convincenti  man  mano  che  si
          afferma  nella  critica  inglese  di  questa  seconda  metà  del  secolo  la
          consapevolezza,  come  diceva  H.  Heuer  (1957),  che  nelle  tragedie  e  nei

          personaggi tragici di Shakespeare «resta sempre un residuo non analizzabile
          che sfugge a una spiegazione razionale», o, come dicono critici recenti, che la
          visione  tragica  veicola  una  «indefinizione»,  che  vige  nello  Shakespeare
          maturo  un  «principio  dell’indeterminazione»:  tutte  le  vere  tragedie  sono

          problematiche e non rispondono agli interrogativi che suscitano. Già nel 1934
          J.W.  Draper  accostava  il Coriolano a Sofocle, ma è negli ultimi decenni che
          avviene  negli  studi  scespiriani  inglesi  una  sorta  di  quieta  rivoluzione,
          sintetizzabile nel rifiuto dei modelli di lettura a tesi, hegeliani o parahegeliani

          (trifasi e consolatori) e comunque portatori di una spiegazione del mondo.
          Si può dire, credo, che il nucleo generatore del Coriolano non è il conflitto,
          pur  così  importante,  nella  psiche  dell’eroe,  né  il  rapporto  altrettanto
          importante con la madre, né tanto meno la politica romana o elisabettiana,

          ma  quella  serie  di  rovesciamenti  imprevedibili,  quasi  inconcepibili  e
          inverosimili, per cui un grande eroe romano ha potuto trasformarsi prima in
          un nemico acerrimo di Roma, e poi − con una seconda scelta che come la
          prima è oggettivamente un tradimento − in una sua figura leggendaria e in

          una vittima dei nemici coi quali si era alleato. Questo secondo rovesciamento
          è insieme peripezia e anagnorisi, cioè riconoscimento della propria natura e
          del proprio destino. Coriolano è al centro della tragedia soprattutto perché è
          un eroe e simbolo della mutabilità, un amante sfortunatissimo della costanza,

          che sempre volle essere uguale a se stesso e sempre fu fedele e incostante,
          come l’uomo ossimorico di Tennyson citato dal Granville-Barker: «His honour
          rooted in disonour stood, / and faith, unfaithful, kept him falsely true» («Il
          suo  onore  fu  radicato  nel  disonore,  /  e  la  fede,  infedele,  lo  mantenne

          slealmente  leale»).  Il  motivo  dominante  del Coriolano  è  il  principio  di
          contraddizione che esprime «la realtà finale della tragedia» (J. Lawlor), e in
          questo senso l’opera col suo eroe insieme costante e incostante è tragedia
          per eccellenza, dà corpo allo stesso principio del tragico ed è pervasa dalla

          stupefacente  ironia  dell’evento  e  dalla  risata  beffarda  degli  dei.  L’uomo
          dominato dal Fato, scriveva Schelling, non fa ciò che vuole e si propone, ma
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