Page 2579 - Shakespeare - Vol. 3
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PREFAZIONE







          Coriolanus, scritto, si ipotizza, nel 1607 o 1608, è a prima vista dramma di

          passioni politiche e militari che si esprimono nei suoi conflitti esterni − tra
          patrizi e plebe a Roma, tra Romani e Volsci − e di contrasti etici e psichici −
          assai sobriamente espressi − tra il «solitario» Coriolano e i suoi oppositori,

          tra i quali il gioco degli eventi inscrive anche i suoi nobili amici romani e la
          stessa madre. Opera «piena di Ares», tutta azione o meglio «tutta litigio e
          lotta» (Hibbard), lineare nel suo unico intreccio, «fredda» e monocorde quasi
          come  una  tragedia  classicistica,  e  però  manieristica  nell’impianto  e  nel
          linguaggio.  Opera  imperniata  su  un  eroe  che  si  profonde  in  invettive  e

          perorazioni ed è avaro di meditazioni, ma nella quale risuona una coralità che
          ha la pienezza traboccante e l’amore del dettaglio tipici degli elisabettiani.
          Opera  massiccia  e  potente  nel  suo  effetto  globale  ma  non  priva  di  aspetti

          prolissi  ed  esteriori  di  una  qualche  innecessarietà  connessa  alla  natura
          denotativa del suo linguaggio e «illustrativa» (Charney) delle sue immagini, sì
          da  lasciare  in  qualche  suo  lettore  un’impressione  ambigua  di  maturità  e
          stanchezza.  Opera  infine  di  cui  non  è  facile  dar  conto,  come  provano  le
          opinioni contrastanti dei critici a cominciare dai romantici, e il conflitto delle

          interpretazioni nel nostro secolo.
          Swinburne  (1880)  la  sentì  come  un  capolavoro  tragico,  e  così  T.S.  Eliot
          (1919) che giudicò il Coriolano e l’Antonio e Cleopatra (opera quest’ultima, io

          credo, di ben più alta levatura) i maggiori successi artistici di Shakespeare. E
          di  grande  tragedia  hanno  parlato,  tra  gli  altri,  H.J.  Oliver  e  L.C.  Knights.
          L’attestazione  di  stima  è  in  verità  unanime  nel  nostro  secolo,  se  pure  con
          molte e varie riserve. Soltanto G.B. Shaw, discutendo nell’Introduzione a Man
          and Superman (1903) della difficoltà o impossibilità di far agire sulla scena un

          eroe tragico positivo, definì paradossalmente il Coriolano «la più grande delle
          commedie di Shakespeare», dove appunto il tragico sarebbe volto in comico
          dall’ottusità,  soprattutto  riguardo  a  se  stesso,  di  quel  «folle  titanico»

          dominato  dalla  madre  −  un  dominio  sottolineato  in  una  messinscena  di
          Laurence  Olivier  del  1959.  Il  Granville-Barker  mediava  tra  i  due  estremi
          ritenendo  la  tragedia  «opera  magistrale  ma  impervia»,  e  il  suo  eroe  «un
          personaggio  non  sviluppato  dall’interno  ma  visto  dal  di  fuori»:  un  giudizio,
          quest’ultimo,  che  ai  nostri  occhi  è  pregiudizio,  dacché  il  critico  misurava

          l’opera coi criteri dello psicologismo allora imperante. Più deciso il Farnham
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