Page 2584 - Shakespeare - Vol. 3
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reagisce con calma sprezzante allo stesso insulto rivoltogli da un altro eroe in
          sfacelo.

          Abituato a vincere, dopo la prima sconfitta Coriolano ci appare − negli atti IV
          e V − un uomo diverso, mostrato nei suoi aspetti «creaturali», fragile anche

          quando «siede nell’oro», disarmato anche nella vittoria, un uomo che quasi ci
          fa pena. Aufidio ne è geloso perché il Romano, dice, lo tratta da subalterno e
          raccoglie applausi e gloria, ma ciò che noi vediamo è un Coriolano servo col
          padrone accanto, al quale deve rendere conto di tutto; un eroe più coatto che

          coerente,  perché  se  «l’ultimo  suo  gesto  è  come  il  primo»  (Brower),  pure
          «nonostante  tutto  il  suo  rigore  (egli  è)  pieghevole,  instabile,  malfido»
          (Rossiter). Costante verso la sua Roma ideale, egli è certo incostante con la
          Roma  reale  e  coi  suoi  nuovi  alleati.  Egli  è  lucido  e  cieco,  cosciente  della

          innaturalità  del  proprio  cedimento  alla  madre  ma  «terribilmente
          inconsapevole  di  ciò  che  ha  fatto»  (Brower):  in  realtà  ormai  quasi  passivo
          nelle mani di quella Tyche che attiva la tessitura ironica dell’opera e punisce
          la  sicumera  umana.  Dal  punto  di  vista  cosmico  −  nel  quale  non  vige  più

          l’umano e logico principio di non-contraddizione − Coriolano è insieme leale e
          traditore,  salvezza  e  rovina  di  Roma,  malattia  dello  Stato  e  sua  medicina,
          «autore di se stesso» e obbligato nelle sue scelte da una serie di vincoli. La
          somma  di  queste  antinomie  è  l’assurdo  ossimoro  tragico  che  egli  incarna:

          libero servo, responsabile irresponsabile, innocente colpevole. Come dicevano
          i  greci,  è  un deinòs: stupendo e terribile, inquietante e inaudito, candido e
          incomprensibile.
          Incomprensibile, anzitutto, alla sua madre monumentale, tenace e spietata

          come tutti i simboli viventi: madrepatria e incarnazione della Volontà, virago
          nazionalista  e  patrona  della  Patria.  Con  la  madre,  cui  è  tanto  legato  da
          sacrificarle la vita, Coriolano in effetti è sempre in conflitto, come il suo Io è
          in  conflitto  col  suo  Super-Io,  come  sono  in  conflitto  i  suoi  valori,  pietà  e

          onore,  valore  e  fedeltà.  Coriolano  e  Volumnia  sono  tutt’uno  e  insieme
          duellano continuamente, sia pure con gentilezza. La salvatrice di Roma è lo
          strumento del suo destino, serve ad asserire nel figlio il suo ethos-dàimon,
          per cui egli deve finire non da servo ma da vittima dei Volsci. Bradley faceva

          notare il significato tragico del silenzio con cui la madre, a V, viii, ascolta le
          parole di cedimento del figlio, in quella che è la sua «ora delle stelle» e il
          momento  del  suo  riconoscersi.  Ma  c’è  ben  altro  che  riscatto  d’amore  o
          momento hegeliano di sintesi nel detto e nel taciuto di quella scena potente.

          Almeno  per  un  momento  Coriolano  vede  sovrapporsi  all’immagine  della
          madre ideale l’immagine di una madre «innaturale», ne vede la sicumera e
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