Page 2580 - Shakespeare - Vol. 3
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(«un magnifico fallimento») che però scrive ottime pagine sull’ambiguo
rapporto madre-figlio come nodo tragico del dramma. Ma per lui
Shakespeare, volendo raffigurare nell’eroe una compresenza d’opposti, un
equilibrio tra positivo e negativo, ammirevole e repellente, si sarebbe spinto
oltre la frontiera del tragico, nella zona-limite dove la tragicità sfiora il
paradossale e il grottesco. E «una tragedia grottesca» è la troppo netta
definizione di Kennet Burke. Mentre altri hanno parlato di «dramma eroico»
(R. Brower), di «satira» (O.J. Campbell), di «dibattito intellettuale» (D.J.
Enright), di «dramma storico» o di «dramma politico... che finisce in
un’assoluta oscurità» (A.P. Rossiter, con un certo debito verso Jan Kott). A
seconda del modello prescelto dal critico, il protagonista è apparso come un
eroe segnato da «amartia» che alla fine si riscatta spiritualmente (nei
maggiori portatori del modello hegeliano, A.C. Bradley e J. Wilson Knight, che
nella tragedia vedono un finale superamento del tragico); come un eroe
sublime, grande spirito e «anima bella» (Farnham, Brower),
un’interpretazione che mal si concilia con la natura della tragedia e con la
demistificazione che Shakespeare, come Montaigne, opera degli ideali
rinascimentali del Valore, dell’Onore, della Passione; o per converso come un
«eroe» irascibile, intrattabile, antipatico, un superuomo reazionario e
parafascista, mostrato in effetti come «un dittatore fascista in embrione» in
una messinscena olivieriana del 1938; o come un eroe dotato di grandi virtù
ma la cui hybris e la cui rovina è l’orgoglio, che sarebbe il tema dominante
del dramma. E altri hanno insistito, a cominciare da Swinburne, sul nodo
madre-figlio, propendendo verso il giudizio di Aufidio che qualifica il nemico di
«bigg boy», e riducendo un rapporto complesso ad una dipendenza dovuta
all’immaturità dell’eroe.
I critici hanno cercato il messaggio dell’opera, che per Hazlitt era di
sopraffazione aristocratica, appena moderata dall’umanesimo dell’autore.
Sulla scia di Coleridge, che parlava della «mirabile imparzialità filosofica della
politica di Shakespeare», i critici del nostro secolo hanno visto l’autore
prendere con equanimità le distanze da nobili e da plebei (Eric Bentley dice
che la tragedia mostra il conflitto «tra torto e torto»), se pure con maggiore
simpatia per i primi, che sarebbe evidente nell’opposizione tra i nobili positivi
e i due «miserabili» tribuni, degradati di recente da villains a veri e propri
personaggi comici (malgrado la difesa del Palmer), e poi nella presentazione
dell’instabilità e volgarità del popolo, «idra dalle molte teste» secondo il
topos classico. Ma Brecht si era proposto di sostenere la tesi contraria senza
alterare il testo, solo a forza d’interpretazione, e questa sua lucida intenzione