Page 2583 - Shakespeare - Vol. 3
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politico salvando il proprio leader anzitutto da se stesso (come dice Cominio a
I, ix, 54-57), cioè dal destino tragico iscritto nel suo carattere. Ma ciò è
impossibile come voler mutare la sua natura, renderlo incoerente con la
propria incoerente coerenza. E in realtà il risultato del loro sforzo è di
spingere l’eroe verso la catastrofe inevitabile.
Che Coriolano, semidio per Menenio, lupo per i tribuni della plebe, abbia
ragione o torto − questo, come sa Aufidio, «dipende dall’interpretazione del
tempo» (IV, vii, 49-50) cioè dal punto di vista − non interessa né alla Moira
né al drammaturgo, che nell’opera assume il punto di vista cosmico. L’uomo
che Plutarco ha chiosato direttamente, secondo lo statuto della narrazione
storica, con ammirazione ma con ferma censura, diventa nello statuto diverso
del messaggio tragico, dove il punto di vista non è più unico ma multiplo, o
«polifonico» (Bachtin), un uomo che l’autore non giudica ma mostra soltanto,
con la tecnica che Coleridge già quasi individuava in una delle sue Bristol
Lectures del 1813: Coriolano è presentato «non attraverso un’unica
descrizione ma attraverso quelle opinioni, metà giuste metà sbagliate, che ne
vanno dando gli amici, i nemici, e lui stesso, e al lettore è lasciato il compito
di trarre le conclusioni.
A mano a mano che la tragedia viene volgendo nei suoi grandi blocchi corali,
commatici, dialogici, ci vengono mostrate − senza commenti o giudizi che
non vengano dall’interno stesso del mondo tragico − le varie facce dell’eroe,
o meglio le antinomie che concorrono a formare il grande ossimoro della sua
natura. Fin dall’inizio, in lui, le virtù sono facce di medaglie la cui altra faccia
è un vizio. E davvero tali virtù-vizi sono tante che ci si stanca a contarle,
come dice, ma solo dei vizi, il tribuno (I, i, 42-43). La nobiltà di Coriolano ha
una faccia ignobile come orgoglio, arroganza, disprezzo, sicumera. Il valore è
crudeltà e disumana cultura della morte. La sua giustizia si fa ingiustizia, il
suo disinteresse è egocentrismo superbo, il suo pudore «orgoglio invertito,
coscienza della propria superiorità» (Granville-Barker). La fedeltà può essere
anche infedeltà, la tenerezza crudeltà inconscia, l’onore disonore. Come dice
la vecchia massima, il vincitore di ogni battaglia è incapace di vincere se
stesso. Il guerriero paragonato a un pianeta, a un dragone, a una macchina
di morte, assimilato all’aquila e al dio della guerra, quando la forza degli
eventi lo serra nella sua morsa si rivela umano, troppo umano. La maestria
nell’insulto è incapacità di controllare le parole della passione, la sincerità è il
difetto politico che infine lo distrugge. La reazione fatale all’ultimo insulto di
Aufidio («thou boy of tears», V, vi, 101) non ha commento migliore del modo
con cui un vero politico, Cesare Ottaviano (Antonio e Cleopatra, IV, i, 1-2)