Page 2189 - Shakespeare - Vol. 3
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mesta  serenità  filosofica  del  suo  podere,  abbia  agito  su  Shakespeare  anzitutto  al  livello  del
                 significante, nello scrivere: «My way of life / is fallen into the sere...».
              42 v,  v.  In  questa  scena  capitale  Macbeth  appare  veramente sacer  nel  senso  doppio  del  termine
                 latino. È investito di «sacralità» come il soggetto di un sacrificio, è vivo su una dimensione che non è
                 quella della morale umana, ma ricorda piuttosto il frammento 60 di Eraclito: «La strada all’ingiù e
                 all’insù, una sola e la medesima.» La sua statura eroico-sacrale, che spiega il fascino della sua figura
                 di contro all’indifferenza che sentiamo per tanti personaggi virtuosi e giusti, non va però spiegata
                 certamente  con  la  sublimazione  nicciano-cristiana  proposta  da  George  Wilson  Knight.  E  dalla  sua
                 situazione-limite egli può aprire uno squarcio su verità profonde. La vera funzione − e il fascino − del
                 passo  famoso:  «Domani  e  domani  e  domani...»  non  sono  nel  suo  essere  un  messaggio  di
                 Shakespeare (perché si tratta evidentemente dei pensieri di un uomo disperato), né nel suo essere
                 «la  verità»,  e  neanche  nel  suo  esprimere  «la  disperazione  di  un  peccatore  indurito  per  il  quale
                 l’universo non ha più senso» (secondo la spiegazione psicologico-moralistica di Bethell e di altri), ma
                 nel suo essere, nella visione tragica, una delle verità possibili, valida proprio perché rovesciabile ma
                 non infirmabile. Nella sua Estetica (ediz. ital. a c. di N. Merker, Feltrinelli, vol.  i, pp. 540-554) Hegel
                 riflette sulla funzione delle grandi metafore, immagini e similitudini usate dai personaggi tragici, che
                 esprimerebbero  la  loro  libertà,  grandezza  di  spirito  e  dominio  del  proprio  carattere,  che  in  esse  si
                 placa pur nel dolore e nella rovina.
              43 v,  v,  17-18.  Sono  due  versi  tormentosi  e  assai  tormentati  nella  loro  ambiguità  dagli  interpreti.
                 Anzitutto  per  l’ambigua  funzione  grammaticale  di  «should/would».  Hunter  interpreta:  «Sarebbe
                 comunque morta prima o poi» seguito da un brusco passaggio dal futuro al passato: «Un tempo
                 avrei potuto sentire il senso di tale parola». Altri leggono: «Avrebbe dovuto morire più tardi (come
                 me) nel tempo giusto per una tale parola (cioè al termine del suo destino di regina)». Ma qualsiasi
                 interpretazione è riduttiva, e cerca invano di violare, forse, il mistero della mente di Macbeth. Meglio
                 lasciare l’ambiguità.

              44 v, v, 19. Halliwell accosta il verso al grido dei corvi nella Nave dei pazzi (1509) di Alexander Barclay:
                 «Cras, cras, cras».

              45 v,  v,  21:  «To  the  last  syllable  of  recorded  time».  Varie  interpretazioni:  «Fino  all’ultima  sillaba  del
                 registro del tempo» (Hudson); «...del tempo fissato dal Cielo a una vita umana» (Johnson); «fino
                 al  giorno  del  Giudizio»  (Elwin);  «finché  il  tempo  raggiunge  l’ultima  parola  registrata»  (Hunter).  Ma
                 «recorded» può ed è stato letto, oltre che come «recording» o «recordable», come «recorded in
                 the book of destiny or providence», che mi pare si adatti meglio al contesto: «fino all’ultima sillaba
                 del tempo scritto nel libro del destino».

              46 v, vi. Come dicevo nella Nota al testo, mi pare più opportuno, come fa lo Hunter, legare le ultime
                 scene stabilite dai vari curatori in un unico «esodo». L’azione è continua, rapida e intensa. E culmina
                 in  un  effimero  ristabilirsi  dell’ordine  che  non  cancella  la  tragicità,  né  la  supera  o  chiarisce.  La
                 «riconciliazione» hegeliana è solo una lettura epocale.

              47 v,  vi,  93-114.  Non  mi  pare  possibile,  alla  fine  del Macbeth,  seguire  i  sostenitori  di  una  catartica
                 «conciliazione»  finale,  di  un  superamento  del  tragico  nella  vittoria  della  «positività»  e  in  una
                 ricostituita armonia provvidenziale e cosmica. In tal modo si nega l’indubbia brutalità e freddezza di
                 questo episodio finale con le sue ironie: la testa del «macellaio morto» (v. 108) è portata in scena
                 da un macellaio vivo (pur con tutte le sue ragioni e la sua giustizia), l’accenno di Malcolm alla «regina
                 diabolica» (sempre al v. 108) non si concilia con l’ultima dolorosa immagine della donna a v, i, e nelle
                 burocratiche  parole  finali  di  Malcolm  c’è  poco  più  che  l’annuncio  di  ciò  che  segue  sempre  a  una
                 vittoria militare: la ricompensa alla propria parte, la gran purga per la parte avversa. Il tutto in nome
                 di Dio e della Giustizia. Anche alla fine della tragedia mi pare che Shakespeare non si schieri né con
                 Macbeth né coi suoi avversari vittoriosi. Da grande tragediografo, egli mostra come sono andate le
                 cose − come vanno le cose − e lascia tutto in questione.
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