Page 2184 - Shakespeare - Vol. 3
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personaggi in scena) non è quella di esprimere «la verità» in contrasto con la possibile falsità del
                 dialogo, ma proprio quella «dialogica» di comunicare il punto di vista del personaggio su se stesso o
                 sugli altri. Si vedano le interessanti pagine di Peter Szondi (111-114 dell’edizione italiana) che sono tra
                 le più accettabili del suo saggio così poco convincente, Teoria del dramma moderno (1956, ed. ital.
                 1962).  Qui  Macbeth  non  capisce  la  natura  oracolare  delle  parole  delle  streghe.  Egli  si  sforza  di
                 spiegare ciò che è erroneamente per lui una «istigazione soprannaturale» in termini morali, di bene e
                 di male. Ciò che si è già verificato è per lui un bene, ma non può essere un bene la tentazione del
                 regicidio  che  è  il  suo  pensiero  dominante,  in  cui  il  reale  si  confonde  con  il  desiderio  e  con
                 l’immaginario,  sicché  egli  vive  il  «tema  imperiale»  cioè  il  tema  dell’imperium,  del  potere,  come
                 anticipazione.  I  tempi  si  confondono  (ed  entrano  nella  imagery  dell’opera  gli  importanti  motivi  del
                 tempo  e  dell’apparenza  [il  vestito]).  Visto  che  la  profezia  gli  appare  insieme  come  bene  e  male,
                 l’impasse  logica  diventa  per  Macbeth  paralizzante,  come  l’antica amekanía  dell’eroe  tragico  greco.
                 Allora Macbeth si affida alla sorte (vv. 143-144 e 146-147), come Edipo quando si proclama figlio
                 della Tyche, della Fortuna.

               6 i, iv. In questa scena va colta, a mio avviso, una sottile doppia dimensione. Da un lato, come dice
                 Knights, la scena è affollata di immagini d’ordine, di gerarchia, di coltivazione agraria, di fecondità, di
                 figure del rapporto feudale tra fedeltà, dovere e amore, e tutto ciò teso a raffigurare i concetti del
                 Buon Governo e della sacralità del re, valori che Macbeth nel suo a-parte (vv. 49-54) mostra già di
                 disconoscere.  Ma  su  un  secondo  e  meno  avvertito  livello  il  re  Duncan  si  annuncia  con  la  parola
                 execution (pena capitale), subito sollecita e ascolta una descrizione di morte, si atteggia poi secondo
                 la  figura  stereotipa  del  sovrano  assoluto  che  sospetta  delle  apparenze,  e  infine  si  avvolge  in  un
                 artificioso linguaggio di corte, subito ripreso da Macbeth, linguaggio che usa parole non meno formali
                 e  vuote  di  quelle  che  suoneranno  nel  banchetto  di  Macbeth  a iii,  iv.  Infine  Duncan  indossa  la
                 maschera  del  Re  buono,  dall’animo  tenero,  facile  alla  commozione  e  alle  lacrime:  e  ciò  è  in
                 Shakespeare tipica recita e commedia della regalità debole e insicura. Nell’ultima battuta del re (vv.
                 55-59)  sembra  esservi  uno  strano  gioco  di  parole  su  «Banquo»  e  «banquet»:  una  sinistra
                 anticipazione dell’altro banchetto al quale Banquo interverrà da fantasma?
               7 i,  v.  La  scena  dell’incontro  fra  Macbeth  e  la  sua  donna  catalizza  il  passaggio  dall’incertezza  e
                 amekanía dell’eroe alla sua ferma accettazione del proprio destino. Nell’ombra di Lady Macbeth sono
                 state  viste  le  bibliche  Eva  e  Lilith,  ma  i  modelli  diretti  della  «donna  di  ferro»  mascolina  e  spietata
                 sono certamente nella tragedia greca, da Clitemestra a Medea e alla Elettra di Euripide (dove i versi
                 1204-5  potrebbero  essere  una  descrizione  anticipatoria  di  Lady  Macbeth).  Nella Medea  di  Seneca
                 tradotta dallo Studley si sono viste le fonti dei passi macbettiani a i, v, 40-54 e i, vii, 54-58.
                 C’è da notare che Lady Macbeth, nel proclamare la propria «Giustizia» (Dike), e nel farsi strumento
                 di quel destino che lei chiama «aiuto metafisico» (metaphysical aid) ci dà un’immagine di Macbeth
                 che mal si concilia con quella già formatasi: qui il feroce capo-clan «rivela» una natura intima che
                 sarebbe  priva  di  malizia,  «piena  del  latte  dell’umana  dolcezza»,  legalista  e  timida  pur  nella  sua
                 ambizione:  una  natura  che  non  sospettavamo  di  certo.  Si  tratta  di  un’altra  e  più  schiva  faccia
                 dell’eroe, della sua ritrosa umanità, oppure è il punto di vista di Lady Macbeth che già «vive il futuro
                 nel presente», bolle d’impazienza per l’assassinio, e scambia la cautela di Macbeth per delicatezza e
                 viltà indegne di un eroe?

               8 i, vi. Di questa famosa scena notturna (vedi la didascalia «oboi e torce») Knights − seguito da molti
                 altri  commentatori  −  nota  che  «le  parole-chiave  della  scena  sono...  tutte  immagini  d’amore  e
                 procreazione  sanzionate  sovrannaturalmente,  e  che  naturalmente  sottolineano  la  positività  dei
                 personaggi buoni contro la negatività dei due Macbeth.» Ma, che io sappia, solo Nicholas Brooke di
                 recente ha notato l’ironia tragica che la situazione conferisce a quelle immagini. Dinanzi al castello
                 della morte Duncan e Banquo «leggono male i segni» (Brooke) e possono credere di trovarsi in un
                 luogo  paradisiaco:  così  incosciente  e  propenso  a  ingannarsi  è  l’uomo,  così  cieco  di  fronte
                 all’apparenza e ignaro del divenire. Per la schermaglia formale del gergo cortese usato dal re e dalla
                 sua ospite v. la nota 7. Al verso 19, «We rest your hermits», lo Steevens spiega: «Pregheremo
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