Page 2187 - Shakespeare - Vol. 3
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27 iii,  ii,  55.  Il  verso  sembra  derivare  da  Seneca, Agamemnon  115:  «Per  scelera  semper  sceleribus
                 tutum est iter.»
              28 iii, iii, 17: «Fly, good Fleance, fly, fly, fly!» C’è della goffaggine in questo grido del povero Banquo,
                 ma più interessante è notare che Fleance, la cui pronuncia elisabettiana è indicata come /flì: ens/,
                 sembra avere nel nome il destino di fuggire. Di lui comunque nel dramma non si parla più, anche se
                 nella  storia  egli  sarà  ben  più  importante  di  Malcolm  per  i  destini  della  Scozia.  Fleance  fugge  nel
                 Galles, ne sposa l’erede principesca, e il loro figlio Walter diventerà Grande Intendente o Stewart di
                 Scozia, assumendo il nome di Walter Stewart o Stuart. Da lui in linea diretta discenderà Mary Stuart
                 (Maria Stuarda) il cui figlio Giacomo vi diventerà nel 1603 Giacomo i d’Inghilterra.
              29 iii, iv. È la famosissima scena del banchetto. Con i suoi discorsi formali e vuoti esso è un simbolo
                 atroce del falso ordine instaurato dal tiranno. Il critico Emrys Jones ha indicato un’analogia con ciò
                 che lo storico Suetonio racconta dell’imperatore Claudio. Lo spettro di Banquo è un emissario che
                 ricorda a Macbeth quella dimensione che egli ha cercato di negare, la dimensione del sovrannaturale
                 e del destino, sulla quale Macbeth è condannato, e ogni suo sogno di stabilire una propria dinastia è
                 vano. Lo spettro non suscita nel re alcun rimorso, soltanto terrore per l’apparizione orribile che gli
                 sembra  −  ironicamente  −  innaturale,  e  che  distrugge  ogni  suo  progetto.  In  realtà  l’ascesa  di
                 Macbeth è finita, e la prossima visita alle streghe con le apparizioni profetiche dei futuri re di Scozia
                 segnerà il turning point o rovesciamento nello schema del dramma.

              30 iii,  iv,  131-134.  Il  ripetuto  «I  will»,  che  appare  per  la  prima  volta  nel  testo,  sottolinea  l’adesione
                 completa di Macbeth al suo destino, e ricorda anche un punto famoso dell’Edipo re  di  Sofocle,  v.
                 1065: «Ormai devo sapere con chiarezza come stanno le cose.»

              31 iii, v. Cfr. la Nota al testo per il carattere operistico di questa scena e per i problemi di attribuzione.
                 Le streghe che appaiono qui, soprattutto attraverso le parole di Ecate, non sono certo quelle del
                 primo atto e del quarto, e quella specie di intrigo da mascherata cui Ecate allude nella sua battuta
                 non ha proprio nulla a che fare col Macbeth. Similmente resta estraneo alla tragedia il song banale
                 che  si  ritrova  nel  dramma La  strega  di  Middleton,  a iii,  iii,  e  che  posso  senz’altro  risparmiare  al
                 lettore. Forse l’unico vago elemento di coesione tra questa scena e la tragedia potrebbe vedersi nei
                 vv.  32-33,  in  cui  si  dice  che  il  peggiore  nemico  degli  uomini  è  l’eccessiva  sicurezza  di  sé,  che  è
                 effettivamente un concetto antico, una parafrasi per la hýbris greca. Ma ciò può solo indicare come
                 concetti  simili  fossero  diffusi  fra  i  teatranti  dell’epoca,  se  non  meramente  rimandare  alla forma
                 mentis medievale, al peccato cristiano di superbia. Si tratta insomma di una scena assai sospetta e
                 inutile.
              32 iii,  vi.  È  un’altra  scena  corale,  con  funzione  soprattutto  informativa.  Ma  essa  accentua  anche  la
                 dimensione tirannica e demonizzata di Macbeth, positivizza Macduff e incomincia a proiettare una
                 luce angelica sulla corte inglese. Tutto ciò, a rigore, è però non messaggio dell’autore o dell’opera,
                 ma opinione dei due personaggi in scena.
              33 iv,  i.  È  la  terza  e  ultima  scena  delle  streghe,  questa  volta  non  sospetta,  tranne  che  per  le  due
                 evidenti  interpolazioni  giambico-operistiche  ai  versi  39-43  (incluso  il song relativo  all’intreccio  de La
                 strega di Middleton), e ai versi 124-131 che servono solo da introduzione a una danza di streghe
                 che  è  tipico  balletto  da mask.  Ma  simili  interpolazioni  spettacolari  si  trovano  in  Shakespeare,  ad
                 esempio nella Tempesta. Un qualche dubbio rimane. Comunque, a parte questi intermezzi teatrali,
                 la scena delle streghe è importantissima, ed ha una funzione generativa rispetto agli ultimi due atti
                 del dramma, così come la scena I, iii aveva funzione generativa rispetto ai primi tre atti. La scena
                 riprende  infatti  il  motivo  soprannaturale  e  oracolare,  e  cioè  il  rapporto  tragico  tra  i  due  mondi
                 dell’opera.
              34 iv, i, 67: Thunder. First Apparition, an Armed Head. Il carattere enigmatico, sovradeterminato delle
                 apparizioni le rende, entro certi limiti, interpretabili ad libitum. L’interpretazione più seguita è quella già
                 settecentesca  che  vede  nella  prima  apparizione  la  testa  di  Macbeth,  nella  seconda  Macduff
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