Page 2186 - Shakespeare - Vol. 3
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l’elemento, tipico di Shakespeare, dell’in-decoro, della malséance, che disgrega il concetto aristotelico
                 e  neoclassico  di  tragedia.  Ma  la  nostra  epoca,  sensibile  alle  scintille  di  significato  che  scatena
                 l’accostamento di tragico e comico, non ha più bisogno di difenderlo. La scena, che include alcuni
                 mirabili «discorsi falsi» di Macbeth dopo la scoperta dell’assassinio, si conclude con la fuga di Malcolm
                 e Donalbain, che Nicholas Brooke definisce due figure «equivoche».

              18 ii, iii, 88-93. È la prima delle battute stupende con cui Macbeth esprime, con un doppio discorso ad
                 altri e a se stesso − uno dei suoi grandi modelli classici è la parlata di Clitemestra prima del delitto
                 nell’Agamennone  di  Eschilo  −  i  suoi  pensieri  più  profondi.  Che  egli  nel  mentire  sia  cosciente  o
                 incosciente delle verità che dice di se stesso non modifica la potenza ironica di questa battuta.
              19 ii, iv. Questa scena «corale» (Liddell, Muir) sottolinea la natura portentosa del regicidio, informa sul
                 successo di Macbeth e mette in chiaro il lealismo di Macduff, che qui comincia a emergere come
                 antagonista di Macbeth.

              20 iii,  i.  Comincia  la  tragedia  di  Banquo,  il  cui  soliloquio  iniziale  mette  in  chiaro  l’ambiguità  morale  del
                 personaggio, misconosciuta che io sappia da tutti i critici.

              21 iii, i, 47-71. Quarto e ultimo soliloquio di Macbeth. L’assassinio di Banquo sarà il primo atto del tiranno
                 Macbeth, che ora ha tutte le caratteristiche del suo nuovo ruolo, durezza d’animo, sospetto e ansia
                 continua, di contro a una Lady Macbeth ora sottomessa e placata. Macbeth trova due giustificazioni
                 per  il  nuovo  delitto,  la  prima  tipicamente  machiavellica  (bisogna  spegnere  chi  si  teme),  l’altra
                 tortuosamente religiosa: se è vera la profezia delle streghe, la vittoria di Macbeth è priva di senso,
                 ed egli ha dato inutilmente «il suo gioiello eterno al nemico comune dell’uomo». Macbeth non è un
                 machiavellico ateo, anzi un cristiano consapevole dei suoi «peccati».
              22 iii, i, 70-71. L’ambigua affermazione può voler dire: «piuttosto scendi in lizza contro di me, destino, e
                 combattiamo  a  oltranza»  (Muir),  oppure  «Piuttosto  scendi  in  lizza  per  me,  o  destino,  e  sii  il  mio
                 campione a oltranza» (Cunningham). Ho cercato di mantenere l’ambiguità nella traduzione.
              23 iii, ii, 16: «But let the frame of things disjoint, both the worlds suffer». Lo splendido verso è un tipico
                 paradigma  iperbolico  shakespeariano,  di  cui  altri  esempi  sono  nell’Antonio  e  Cleopatra  i,  i,  33-34
                 («Let Rome in Tiber melt, and the wide arch / Of the rang’d empire fall!») e in Coriolano v, iii, 33-34
                 («Let  the  Volsces  /  Plough  Rome  and  harrow  Italy!»).  Per  la  metafora  che  rimanda  all’arte  della
                 falegnameria e della costruzione edilizia, cfr.  Amleto i, ii, 20, Troilo e Cressida v, ii, 156 e Tempesta
                 iv,  i,  154.  «Ambedue  i  mondi»  non  possono  essere  che  il  mondo  terreno  e  quello  celeste,  e
                 l’affermazione è quindi la blasfemia di un dannato. L’intera famosa battuta, che va dall’immagine del
                 serpe  al  desiderio  di  pace  nella  morte,  è  espressione  bellissima  della  malinconia  in  qualche  modo
                 amletica da cui Macbeth a poco a poco sarà posseduto: sfiducia nel senso dell’azione umana dopo
                 lo sguardo nell’abisso, che è poi il sentimento volgarizzato dal moderno teatro dell’assurdo. Infine, la
                 conclusione  della  battuta  (vv.  22-26)  suona  come  una  splendida  sintesi  del  terzo  coro
                 dell’Agamennone  di  Seneca  sul  funesto  amore  della  vita:  «Heu  quam  dulce  malum  mortalibus
                 additum / vitae dirus amor...» che Studley traduce nelle sontuose zimarre del suo verso lungo.

              24 iii, ii, 49-50. La metafora legale del «great bond» rimanda alla legge naturale e alla legge divina, cioè
                 al  patto  o  contratto  che  l’uomo  ha  con  Dio  e  con  la  Natura.  La  sua  violazione  è  per  Macbeth  il
                 tormento della coscienza che lo rende pallido, e tuttavia egli invoca la notte (come luogo e tempo,
                 per eccellenza, di ciò che è perverso e occulto) perché faccia a pezzi e distrugga in lui quei vincoli
                 morali.

              25 iii, ii, 50: «Light thickens». L’immagine si costruisce sul doppio significato di «light», luce e leggero,
                 che permette l’antitesi: il leggero si addensa, o l’aria sottile si addensa. In italiano non c’è modo di
                 unire aria e luce serali, si può solo cercare di salvare la tendenza ossimorica.
              26 iii, ii, 52-53. È un motivo presente nell’Ifigenia in Tauride di Euripide (v. 1027) che Roger Ascham cita
                 nel suo Toxophilus (1545): «Ill thinges the night, good thinges the day doth haunt and use.»
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