Page 2182 - Shakespeare - Vol. 3
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Note







               1 i,  i.  Coleridge  capì  per  primo  l’importante  funzione  di  questo  rapido  prologo,  di  cui  disse  che  «fa
                 risuonare  la  nota  dominante  di  tutto  il  dramma»,  e  in  un  suo  scritto  del  1887  Mallarmé  definisce
                 questo  incipit  «ouverture  su  un  capolavoro:  come,  nel  capolavoro,  il  sipario  semplicemente  s’è
                 alzato,  un  minuto,  troppo  presto,  tradendo  intrighi  fatidici.»  Ma  Granville-Barker  e  altri  critici
                 considerarono  spuria  e  inutile  questa  ormai  famosa  scena  che  viene  ridotta  al  suo  significato
                 letterale  e  naturalistico:  le  streghe,  associate  al  maligno  e  all’orripilante,  ritengono  che  l’orrido  sia
                 bello, e il bello (anche morale) lo respingono come schifoso. La scena appare oggi essenziale alla
                 tragedia,  di  cui  annuncia  il  nucleo  ossimorico,  il  tema  oracolare,  e  il  doppio  tempo  umano  e
                 numinoso.  Occorre  precisare  anzitutto  che  nel  testo  le  tre  «streghe»  non  sono  certamente  delle
                 proiezioni dell’ambizioso disegno interiore di Macbeth. Sono esseri oggettivi, e difatti Banquo le vede
                 così  come  Orazio  vede  il  fantasma  nell’Amleto.  Shakespeare  le  rappresenta  con  la  tipologia  del
                 folklore, proprio come quelle streghe nordiche che nella fonte incontrano a Forres i due condottieri
                 dell’esercito di Duncan. E già Holinshed riportava «l’opinione comune... che queste donne erano o le
                 sorelle destinatrici (weird sisters) cioè si potrebbe dire le dee del destino, oppure delle ninfe o fate,
                 dotate di saggezza profetica grazie alla loro scienza necromantica, perché ogni cosa si attuava così
                 come esse avevano detto.» W. Farnham ( La frontiera tragica di Shakespeare, 1950) ricorda che
                 hag  e witch  potevano  indicare  sia  la  persona  che  ha  fatto  un  patto  col  demonio,  sia  anche  un
                 demone, e altri critici come Curry e Muir sono d’accordo. Piuttosto che semplici streghe, le sorelle
                 fatali, legate alla pagana Ecate, appaiono come emissarie del Destino. Esse si limitano a comunicare
                 a Macbeth le proprie profezie, senza mai invitarlo a realizzarle e senza dargli istruzioni in proposito. Il
                 loro  numero  rimanda  alla  trinità  delle  Moire  o  Parche  (e  in  effetti  Gavin  Douglas,  traducendo  nel
                 1553 il terzo libro dell’Eneide, rende con weird sisters le Parcae virgiliane). Kittredge nella sua edizione
                 di  Shakespeare  commenta  che  esse  sono  delle  Norne,  cioè  «grandi  potenze  del  Destino,  grandi
                 ministre  del  Fato:  han  determinato  il  passato,  governano  il  presente,  non  solo  predicono  ma
                 stabiliscono  il  futuro.»  Hegel  nella Fenomenologia  dello  Spirito  accosta  all’oracolo  greco  le  ambigue
                 sorelle del destino, che spingono al delitto con le loro ermetiche previsioni: ciò che dicono le potenze
                 oracolari  non  è  il  modo  in  cui  appare  la  verità  (cioè  la  pienezza  della  sostanza)  ma  un  segno
                 ammonitore  dell’inganno,  dell’irriflessione,  della  singolarità  e  accidentalità  del  sapere  umano,  della
                 limitatezza della coscienza. In ogni caso, e malgrado i dubbi dello stesso Hegel nell’Estetica, le figure
                 soprannaturali annunciano ciò che è stabilito e non può non attuarsi. Dal punto di vista drammatico,
                 le streghe funzionano come gli spettri nella Spanish Tragedy di Kyd, un occhio che guarda tutto da
                 fuori e sopra, e sa come il dramma andrà a finire. Ma Shakespeare ha trovato modi meno rozzi e
                 retorici per esplicitare il rapporto ironico fra libertà umana e presenza del destino. Come nel Sogno,
                 ha fuso classicità e contemporaneità nel creare queste potenti figure fuori del tempo, insieme esseri
                 numinosi e maghe, norne e streghe (e perciò nella traduzione, dopo qualche dubbio, ho mantenuto
                 il termine tradizionale).
                 L’incipit del dramma va inteso, diciamo, alla luce della sua fine, come parte della visione cosmica e
                 ironica  che  investe  tutta  la  tragedia.  Un  critico  recente,  M.J.B.  Allen  (in Shakespearian  Tragedy ,
                 1984) accosta la scena all’inizio dell’Edipo Re di Sofocle: scene ambedue codificate ironicamente, in
                 modo da poter leggere quasi in ogni parola delle anticipazioni della fine, cioè un sottosenso aperto
                 solo  alla  coscienza  tragica  dell’autore  e  dello  spettatore-lettore.  Il  numero  tre  evocato  dal  primo
                 verso:  «Quando  ci  rivedremo  noi  tre?»  si  dissemina  magicamente  nella  storia:  tre  profezie,  tre
                 apparizioni delle streghe, tre assassinii ecc. e il verso 3 («When the hurly-burly’s done», che sembra
                 venire dal primo coro dell’Agamennone senechiano tradotto dallo Studley, un coro pieno di immagini
                 che ritroviamo nel Macbeth: «One clod of croked care another bryngeth in, / One hurly burly done,
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