Page 2183 - Shakespeare - Vol. 3
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another doth begin.») associa al senso metafisico di «hurlyburly», come tumulto dell’azione e della
                 vita  umana,  il  termine  «done»  che  tornerà  a i,  vii  in  un  famoso  soliloquio  ed  echeggerà  a  livello
                 subliminale in nomi come Duncan e Dunsinane. L’affermazione del verso 4 («When the battle’s lost
                 and  won»)  è  pregna  di  tre  possibili  sensi:  può  riferirsi  alla  battaglia  coi  ribelli,  di  cui  alla  scena  ii,
                 battaglia che può dirsi vinta da Macbeth e perduta dai ribelli, o vinta e perduta insieme dal futuro
                 ribelle Macbeth e dal suo re Duncan, viste le sue tragiche conseguenze. Ma il verso, come quello
                 che  lo  precede,  può  riassumere  l’intero  dramma  nel  suo  appello  immaginativo.  Il  suo  ossimoro
                 anticipa quello capitale del verso 9 («Fair is foul, and foul is fair») ripetuto da Macbeth a i, iii, 37, che
                 indica  la  natura  alogica  della  sfera  del  numinoso,  in  cui  ogni  affermazione  logica  è  rovesciabile,  e
                 insieme  l’antinomia  connaturata  in  ogni  essere  e  azione  umani,  in  ogni  aspetto  dell’essente  e
                 dell’essere nella visione tragica.

               2 i, ii. Dopo il prologo sinistro delle streghe, le nebbie si diradano per mostrarci il mondo cannibalesco
                 degli history  plays,  pieno  di  suoni  e  urla  guerreschi,  di  valori  bellicosi,  fiumi  di  sangue  ed  esaltati
                 macelli. La parodo è quella di un coro di guerrieri, e il suo linguaggio violento e gonfio ha la natura
                 stessa dei personaggi, qualora non vengano scremati, idealizzati e castrati dai critici. Non c’è niente
                 di  bello  in  quel  re  feudale  e  nei  suoi  catafratti  vassalli.  Allen  fa  notare  che  il  modello  del  capitano
                 ferito che viene a portare notizie della battaglia è il messo eschileo o in genere della tragedia greca,
                 ed è «il primo uomo coperto di sangue in un dramma dominato da uomini sanguinari». Violenti e
                 sanguinari  gli  eroi,  violenta  e  gonfia  ai  limiti  del  grottesco  la  relazione  del  messo  sui  fatti  d’arme
                 dominati dalla Fortuna, associati a una natura tempestosa che è pure il leit-motiv delle streghe. Nel
                 riferire le prodezze dei due duci, il capitano si chiede, ai vv. 40-41, se essi «volessero bagnarsi nelle
                 ferite fetenti, o lasciare memoria di un altro Golgota» e Allen commenta: «Il riferimento inquietante
                 e ambivalente alla Crocifissione associa Macbeth ai persecutori di Cristo, per quanto egli sia ancora
                 nella  fase  di  coraggio  precedente  alla  sua  caduta».  L’analogia  coi  soldati  romani  sul  Calvario
                 sottolinea il fatto che la spietatezza di Banquo e Macbeth non si distingue da quella dei ribelli. Infine
                 l’ultimo verso della scena (70) riecheggia sinistramente il detto delle streghe sul «vinto e perduto».

               3 i, iii. La scena capitale dell’incontro di Macbeth con le sorelle fatidiche tocca i motivi del nucleo tragico
                 dell’opera: i problemi della motivazione, della scelta, della volontà, della responsabilità, del destino.
                 Qui  Macbeth  entra  in  scena  come  vassallo  fedele  e  coraggioso,  e  prima  che  la  scena  finisca
                 comincia a mostrare l’altra sua faccia di traditore e regicida. Si sono cercati i fattori che concorrono
                 al suo mutamento: l’ambizione, il fascino della corona come dinastia, vittoria sul tempo e forma di
                 immortalità, impulsi che attivano la potenzialità di male e di corruzione presenti in ogni animo umano;
                 la tentazione del momento favorevole, l’istigazione di Lady Macbeth su cui si rovescia una buona
                 parte  della  colpa,  la  sollecitazione  stessa  delle  streghe  come  figure  del  Maligno.  Ma  una  simile
                 interpretazione  psicologica  e  teologica  (i  cui  presupposti,  cioè,  sono  i  concetti  cristiani  di  male,
                 tentazione, peccato) trascura del tutto gli indubbi elementi classici e oracolari. In realtà Shakespeare
                 riesce  a  comunicare  sia  il  dato  della  libertà  di  Macbeth  sia  la  sua  predeterminazione.  Siamo  in
                 presenza di una tipica aloghía tragica. Scrive D.G. Palmer: «L’eco inconscia delle parole delle streghe
                 nelle  prime  parole  (di  Macbeth,  al  v.  37)  le  fa  sembrare  parole  non  sue,  lo  identifica
                 misteriosamente con delle forze che sono al di là di lui. Lo stesso concetto della personalità come un
                 tutto distinto e autonomo è sovvertito.» Questa antinomia è nel cuore della tragedia: sappiamo ciò
                 che  avverrà  ma  siamo  portati  a  credere  che  ogni  decisione  di  Macbeth  è  una  sua  libera  scelta.
                 Come  l’inizio  dell’Agamennone  di  Eschilo  o  quello  dell’Edipo  Re  sofocleo,  l’inizio  del Macbeth  è
                 un’esplorazione  metafisica  di  grande  intensità  ironica  e  simbolica,  ed  è  dal  punto  di  vista
                 dell’organicità drammatica necessario e legato alla fine e alla totalità della tragedia.
               4 i,  iii,  31:  «The  Weird  Sisters».  Il  termine  «weird»  è  quello  dell’antico  inglese  «wyrd»  e  del  medio
                 inglese «werd» che significano «destino». Holinshed le chiama appunto «le dee del destino» («the
                 goddesses of destiny»).
               5 i,  iii,  126-141:  Primo  soliloquio  di  Macbeth.  La  funzione  drammatica  dello  «a  parte»,  convenzione
                 inventata  per  esprimere  ciò  che  pensa  il  personaggio  (da  solo  o  senza  comunicarlo  ad  altri
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