Page 2973 - Shakespeare - Vol. 1
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mediana, ché la partita, in teoria, è ancora aperta. L’esordio è minaccioso, con Bolingbroke che
    punta deciso sul castello, promettendo una terribile «tonante deflagrazione» degli elementi, se il
    Re non scenderà a patti: «Se lui è il fuoco, io sarò l’acqua arrendevole». Ma quel fuoco è già
    spento: il Re Sole offuscato da «invide nubi» potrebbe opporgli qualche residuo bagliore, se solo
    avesse la volontà di un accomodamento onorevole. L’infido Aumerle gli suggerisce di battersi
    «con le belle parole»; ma anziché prender tempo, il Re, che nella scena precedente si è
    immedesimato nel suo nuovo ruolo di perdente, già si vede - pur cosciente di vaneggiare - nei
    panni del pellegrino ramingo, con tanto di saio, bordone e scodella di legno. Un re divino non si
    piega a un ultimatum. Piuttosto che accettare la sottomissione del cugino ribelle, egli sceglie, con
    la superbia infantile dei deboli, la capitolazione totale, e virtualmente offre il regno al rivale su un
    piatto d’argento. È in questo momento - o così sembra - che Bolingbroke decide di soppiantarlo
    sul trono. E la bilancia pende decisa dalla sua parte.

58 III, iii, 178 Riccardo si paragona a Fetonte nella sua vertiginosa caduta, forse non del tutto
    consapevole di quanto il paragone gli si attagli (Fetonte - in greco, ‘scintillante’ - nella sua
    presunzione si era illuso di poter controllare i cavalli del Sole, e avrebbe bruciato la Terra se Zeus
    non l’avesse folgorato). La «corte da basso» è quella riservata alla servitù: il sarcastico gioco
    verbale del Re s’innesta, con voluttà masochistica, nella grande altalena di ascesa e discesa che
    governa il movimento e la struttura del dramma.

59 III, iii, 205 Nella realtà storica, i due antagonisti hanno entrambi 33 anni.

60 III, iv, didascalia La scena è il giardino del Duca di York, nella campagna inglese. In tale cornice
    Shakespeare immette una semplice e nitida allegoria politica, quella del giardino come
    microcosmo, secondo la tendenza rinascimentale a vedere nell’ordine della natura il riflesso
    emblematico di più ampie realtà umane (cfr. in Enrico V, I, ii, la metafora dell’alveare,
    mirabilmente colorita). Il giardiniere è re di un piccolo universo racchiuso da un muro di cinta, e il
    Re dovrebbe fare del suo regno un giardino. L’analogia tra giardino e regno è già in diversi
    drammi storici dell’epoca, tra i quali gli shakespeariani Enrico VI, parte prima e parte seconda,
    ma i precedenti vengono da lontano: basti pensare alle parabole evangeliche del grano e del
    loglio (Matteo, XIII) e a quella dei vignaioli (Matteo, XX) dove la proprietà è vista come trust,
    mandato di cui gli uomini devono rispondere a Dio.

61 III, iv, 4-5 Alle bocce si giocava sul prato, su un «percorso accidentato» (rubs equivale a
    ‘ostacoli’, ‘intoppi’) per le ineguaglianze del terreno. Le bocce avevano inoltre un’anima di piombo
    (bias) che imponeva alle stesse percorsi a effetto: entrava quindi in gioco una duplice
    deviazione, causata dalle irregolarità del campo sommate all’eccentricità della bias. Altro gioco di
    parole sul doppio senso di measure: ‘misura’, ‘quantità’ e anche ‘passo’, ‘tempo’, o ‘giro di
    danza’ ai vv. 7-8.

62 III, iv, didascalia dopo il v. 23 I personaggi del giardiniere e dell’aiutante appartengono anch’essi
    alla tradizione rinascimentale, dove un’astratta integrità pastorale da Età dell’Oro si contrappone
    a eccessi e decadenza del raffinamento mondano. Sono personaggi stilizzati, e ne fa fede il loro
    linguaggio forbito, senz’ombra di coloriture umorali. L’eloquio del nostro giardiniere ha inflessioni di
    saggezza erasmiana: il tono è quello della trattatistica sul buongoverno, cara al Rinascimento, e
    del Rinascimento esprime lo spirito intimamente laico. In esso manca ogni riferimento a realtà
    oltremondane o concezioni mistiche della sovranità o del diritto. All must be even in our
    government («il nostro governo si fonda su un saggio equilibrio») egli afferma. E il suo braccio
    destro rincalza: «Rispettare la legge, la forma, la giusta misura»; per poi esprimere un giudizio di
    condanna, temperata da umana pietà, sull’operato del Re. La sua deposizione (s’intende) è
    conseguenza diretta e inevitabile del suo malgoverno. Se questo dramma ha un messaggio
    politico, esso è racchiuso in questa breve scena, che fa intravedere in embrione una concezione
    contrattualistica della sovranità. Tra la concezione ispirata alla sacralità del monarca, che
    conduce all’arbitrio, e quella che condona la ribellione in nome del buongoverno, per poi gettare il
    paese nella discordia civile, esiste forse una terza via, nell’equilibrio di diritti e doveri, dei sudditi
    tutti come del loro sovrano.

63 ATTO IV, i, didascalia La scena si sposta a Westminster. Shakespeare vi comprime eventi
    svoltisi in sette diversi momenti nell’arco di cinque mesi: la formale abdicazione del Re,
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