Page 2236 - Shakespeare - Vol. 1
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l’accademia del ben vivere e ben parlare è un po’ come il duca Prospero a
Milano nell’antefatto della Tempesta, propenso più agli ozi filosofici che ai
doveri di stato.
Al punto in cui s’è arrivati nello sterminato girare a tondo della critica,
come un asino che s’affanna a cavare sempre nuova acqua dal pozzo, c’è
da dire che un’eccessiva attenzione agli aspetti linguistici e alla fuga
verbale del lavoro finisce col far torto alla bella e semplice fabula della
commedia: un gruppo di ragazzi entusiasti decide di rinunciare ai piaceri
degli anni migliori, per passare da soli tre lunghe annate in quello che dopo
tutto si direbbe il giardino di casa del re, tutti dediti agli studi e a scoprire
come si possa vivere filosoficamente bene. Ma l’arrivo imprevisto di alcune
ragazze vispe e sagge manda a monte il loro progetto, anzi il loro sistema
di vita, perché le principesche monelle li fanno subito innamorare, e dopo
aver preso in giro i loro goffi corteggiamenti decidono di accettare le nozze,
ma non prima che i pretendenti abbiano trascorso un anno lontani, ognuno
per migliorarsi svolgendo per benino una sua prova d’amore. Una vicenda
fresca e, si direbbe, infusa del sentimento che la vita può essere grazia -
nel senso sacro e profano - e che a renderla tale concorre la virtù raffinata
del saper parlare. Parlare bene, pensano le ragazze, è legato all’agire
bene. Bisogna educarsi, in una educazione che è anche sentimentale, a un
parlare ben “regulato”, ed esente dai vizi che stimola e rivela un linguaggio
usato male per ignoranza, per falsa esibizione culturale o per carenza di
radici terragne, come nello spagnolo “internazionale” don Adriano de
Armado, o per l’egoismo aggressivo e ipocrita dei giovinotti che, invece di
unire, ferisce e separa, che gioca con le ambiguità e capacità di
sorprendere e di ingannare del linguaggio, dimenticando che esso
dovrebbe essere anzitutto uno strumento di comunicazione, di convivenza
e di comunione. Il principio che parlar bene è sintomo di vivere bene, che
all’apertura dell’opera è l’aspirazione che dà vigore e dignità al discorso del
re di Navarra, è quello stesso che ispira i progetti delle accademie
platoniche i cui modelli si diffondono dall’Italia in Europa nel corso del
Cinquecento; esso, nella commedia, giustifica funzionalmente, a
controprova, l’emergenza ripetuta del suo opposto, nel parlar male dei
comici che è fondato sul loro sforzo ridicolo e folle di usare lo stile alto da
parte di chi non sa farlo, e anche nel riemergere della retorica affettata dei
giovani nobili, presi nell’improbabile tentativo di liberarsi dal moi haïssable.
Soltanto le ragazze, con tutte le loro umane imperfezioni per nulla taciute
o idealizzate, mantengono un quasi costante parlar chiaro, e la Principessa
di Francia, loro degna signora, conduce la lotta contro il degrado
concettoso che prosciuga la funzione comunicativa del linguaggio, al punto
da far sembrare un miracolo che l’uomo possa comunicare con l’uomo

