Page 2233 - Shakespeare - Vol. 1
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PREFAZIONE

La commedia, stampata in un’edizione in-quarto nel 1598, e poi nell’in-folio
del 1623, pare che sia stata rappresentata, e non necessariamente, come i
critici hanno supposto a lungo, per un pubblico più raffinato e colto di
quello usuale, nella seconda metà del 1594. Cadrebbe cioè tra il primo
gruppo di commedie assegnate al 1593, e il primo capolavoro dello
Shakespeare commediografo, quel Sogno d’una notte di mezza estate
(1595) che essa anticipa vistosamente nel gran “conclave” finale con la
recita preparata dai clowns e schernita dai suoi nobili spettatori. Essa
denuncia anche la vicinanza al primo gruppo dei sonetti, e ai due poemetti
umanistici del 1593-1594, per l’echeggiamento di temi, toni e modi
stilistici, ma anche per un certo suo presentarsi come prova di virtuosismo
poetico: un aspetto che, con altri che vedremo, non ha contribuito alla sua
fortuna. Già Pope la condannava come opera piena di bisticci verbali, frizzi
e lazzi non sempre puliti, decisamente indegna di Shakespeare, e il Dottor
Johnson, che detestava i doppi sensi e i giochi di parole, avanzava molte
riserve sui suoi passi «infantili, volgari, e inadatti alle orecchie di una
regina verginale», ma ne apprezzava i tanti segni del genio dell’autore. Da
allora la commedia è stata sempre considerata un lavoro d’apprendistato,
limitato dall’esuberanza della dizione a scapito dell’azione e dei caratteri. E
questa insubordinazione di un ingrediente considerato da sempre un
elemento minore della struttura l’ha fatta trascurare come opera
squilibrata dall’eccesso di gioco linguistico, uno strumento questo che si
dimostrava usato con grande abilità nell’officina del primo Shakespeare,
ma che qui gli avrebbe preso la mano per carenza di freno e di disciplina.
Questa è l’opinione che prevale da Coleridge a Swinburne, e poi dal
Granville-Barker al Charlton e agli altri maggiori critici, che tutti ne
denunziano la verbosità, la parlantina “barocca” e qualche volta indecorosa
dei personaggi, spinta a tratti fino a vera ubriacatura verbale, i discorsi
sovente “fatui” e affettati, e la profusione di metri e rime che parrebbero
intrufolarsi dovunque, come giovinette «sfrenate e capricciose nella loro
grazia immatura» (Swinburne), assieme all’ossessivo language game di
questa che è la più letteraria delle commedie, quella che porta - come
diceva il Borges dello stile barocco - il gioco linguistico ai suoi estremi, fino
a rasentare la caricatura di se stesso.
Ma col prevalere dell’interesse per il linguaggio, e col gran mutare di gusti
e metodi dell’ultimo cinquantennio, quell’esuberanza verbale che collocava
la commedia in posizione secondaria è divenuta il volano per rilanciarla
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