Page 1996 - Shakespeare - Vol. 1
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datazione precedente - 1592 o prima - si fondano sul sensazionalismo
dell’azione, ripreso dalla Spanish Tragedy e ancora alquanto grezzo, di cui
Shakespeare non avrebbe più fatto un uso così estremo, e sull’impasto
stilistico in più punti ingenuo e soprattutto eclettico, con ostentazioni
culturali tipicamente giovanili, quali le frequenti citazioni latine.
E veniamo al problema della paternità stessa dell’opera. Solo in epoca
elisabettiana e giacomiana la tragedia fu attribuita senza difficoltà a
Shakespeare. Non dovette aver dubbi Francis Meres quando nel 1598
l’annoverò, nel suo Palladis Tamia , fra le sei tragedie scritte fino a quel
momento dal nostro autore (tragedie che, in buona parte, sono comunque
drammi storici). Né ebbero dubbi Heminges e Condell, due attori membri
della compagnia di Shakespeare, che in quel prestigioso «Tutto
Shakespeare» che è il primo In-folio del 1623, la inclusero al secondo posto
fra le tragedie, dopo Coriolano, un altro, molto più tardo, dramma
d’argomento romano.
Ma già verso la fine del Seicento ci fu chi ne discusse radicalmente
l’attribuzione. Si tratta di Thomas Ravenscroft che riscrisse l’opera, nel
1687, presentandola come Titus Andronicus, or the Rape of Lavinia, e vi
premise una allocuzione al lettore in cui dichiarava: «Mi è stato detto da
qualcuno, di antica familiarità con il teatro, che non era originariamente
sua, ma gli fu portata da un certo autore per essere messa in scena, ed
egli diede solo dei ritocchi da maestro a una o due delle parti principali;
cosa che io sono pronto a credere perché è la più scorretta e mal digerita
fra tutte le sue opere. Sembra un mucchio di rifiuti piuttosto che una
struttura».
I grandi editori shakespeariani settecenteschi, da Theobald a Malone,
furono più o meno concordi, con l’eccezione di Capell, nel rifiutare o nel
mettere fortemente in dubbio la paternità del grande drammaturgo. Dopo
una relativa dimenticanza nel secolo successivo, la questione è tornata di
grande attualità nel Novecento suscitando vivaci querelles critiche.
Per Robertson (1905 e 1924) Shakespeare praticamente spariva dalla
scena (di questo dramma), e l’autore diventava Peele, con una qualche
collaborazione di Kyd, Greene e Marlowe. Per il filologicamente più
agguerrito John Dover Wilson (1948) era ancora Peele l’autore più
probabile della prima stesura dell’opera, che sarebbe stata poi rivista a
fondo da Shakespeare. Per Maxwell (1953) l’opera restava di Shakespeare,
ma il suo primo atto denunciava una revisione da parte di Peele.
Ora, che ci siano echi lessicali, e forse anche sintattici e stilistici, da Peele,
in particolare nel primo atto, è un fatto provato; un fatto che non prova,
però, automaticamente che il dramma, o anche solo il suo primo atto, sia
di mano di Peele, le cui tracce stilistiche potrebbero indicare o una qualche