Page 2939 - Shakespeare - Vol. 3
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Note
1 PERSONAGGI L’elenco non è nell’in-folio, appare per la prima volta nell’edizione del Rowe (1709) ed
è perfezionato dai successivi curatori. Si noti che Shakespeare ha mutato il Marcius della fonte in
Martius, assimilandolo al dio protettore, Marte.
2 I, i La lunga prima scena (277 versi), che apre il dramma sul motivo del conflitto civile e della
violenza, è nella sua prima parte (vv. 1-161) un prologo-parodo. Il coro degli ammutinati
preannuncia i due contrapposti punti di vista, interni al mondo dell’opera, sul protagonista (eroe della
patria o nemico del popolo, uomo ambizioso e orgoglioso o guerriero rude e disinteressato, ecc.), e
l’intervento di Menenio contrappone naturalmente la visione ideologica dei patrizi a quella dei plebei.
Shakespeare mostra l’urto delle idee e dei giudizi, fa emergere la complessità contraddittoria reale
delle parti in opposizione, si cancella come autore esterno e si fa tramite, come autore interno, delle
libere idee e passioni in conflitto.
3 I, i, 7-8 In questa e nelle successive battute del primo cittadino il giudizio plebeo su Coriolano e sulla
classe dominante: esso non è certo privo di ragioni e di giustizia. L’eroe è in effetti «un nemico del
popolo», «un cane per la plebe» (cioè un maestro del vituperio, che continuamente inveisce contro i
popolani), un uomo pieno di difetti e spinto dall’orgoglio e dalla sottomissione alla madre. Il secondo
cittadino introdurrà però l’idea che l’eroe non è solo questo: egli è valoroso, è modesto e
disinteressato, e soprattutto è segnato da difetti che sono connaturati in lui, e quindi inevitabili: nel
suo carattere è il suo destino.
4 I, i, 22 «For the gods know...» Il rimando al livello divino come referente e contesto è costante
nella tragedia e del tutto trascurato dai critici. Ma su di esso si fondano la struttura dell’ironia e il
senso tragico globale dell’opera.
5 I, i, 49-161 Apologo di Menenio Agrippa. Se il secondo cittadino ha raffrenato l’impeto della
sommossa, Menenio − che non è come crede la plebe «un brav’uomo amico del popolo» − le
infligge uno scacco decisivo, mostrandoci come un grande politico e oratore possa aver ragione di
un avversario dialetticamente sprovveduto. L’episodio, che è statico in Plutarco e lo sarebbe nelle
mani di un drammaturgo mediocre, qui è un capolavoro di dinamismo. Menenio comincia con
grande svantaggio, in tono sottomesso, amichevole, quasi umile. Parlando studia l’avversario, ne
saggia rapidamente i punti deboli, prende tempo per guadagnare terreno e acquistarne in parte la
fiducia, assume progressivamente la certezza di poter rovesciare la situazione a proprio favore,
semina dubbi e apprensione, calca i toni per impaurire e scombussolare, passa all’ironia, all’attacco,
all’insulto. Infine i plebei sono bloccati e umiliati. E nel momento in cui il grand commis ha vinto la
partita ecco apparire l’eroe, che Menenio può a buon diritto salutare in tono trionfale e soddisfatto.
6 I, i, 162-277 L’epifania dell’eroe segna l’insuccesso della sommossa plebea. Fino al v. 249 sarà la
nobiltà a dominare la scena. Ma l’ultima parola resta ai professionisti della politica popolare, i tribuni
della plebe. Intanto le violente invettive di Marzio dichiarano la sua indubbia hybris, se le vediamo,
come sono, in opposizione alla calma, al garbo, all’ostilità controllata e all’astuzia politica del discorso
di Menenio. Intollerante, aggressivo, fazioso, incapace di convivere con i suoi oppositori nella polis −
e quindi, come diceva Aristotele, non «animale politico» com’è l’uomo, ma o dio o bestia − Marzio
lavora alla propria rovina. E tuttavia questo suo comportamento − che ai suoi occhi è leale e
sincero, ispirato al suo alto ideale di governo monolitico − non è che una parte ambigua della sua
realtà non schematizzabile. Marzio ha di se stesso un’immagine ideale, costruita sul represso e sul
pregiudizio. Con tutta la sua sicumera egli s’inganna su di sé, sui propri atti, sulle loro conseguenze e
sulla realtà che lo circonda.