Page 2581 - Shakespeare - Vol. 2
P. 2581

desiderio di autoasserzione e di possesso. Lo sa bene il buffone Tersite, folle
          e  saggio  come  quasi  tutti  i  buffoni  di  Shakespeare,  e  il  suo  parlare  della
          guerra sempre in termini di libidine e di soddisfazione della foia è coerente e
          dotato di verità. La bestia umana, ossimorica e stupefacente, dotata d’infinita

          vanità, presunzione e illusione, vuole impossessarsi di tutta quanta la realtà,
          di  cui  pretende  di  conculcare  l’inesauribile  varietà  imponendole  il  proprio
          ordine e la propria gerarchia, come nel famoso discorso dell’astuto Ulisse a I,
          iii,  sul  quale  dovrò  tornare.  Che  quest’ordine  fosse  un  inganno  dei  ricchi

          contro  i  poveri  −  anch’esso  ossimoricamente  letale  e  necessario  −  lo
          sapevano Tommaso Moro e Sir Walter Raleigh, oltre a Shakespeare e a chissà
          quanti  altri,  perché  in  ogni  epoca  l’ha  sempre  saputo  una  piccola,  muta  e
          perplessa minoranza.

          Cressida,  come  Ulisse,  è  consapevole  del  potere  corrosivo  del  tempo,
          dell’instabilità  umana  e  di  varie  altre  cose.  E  come  Achille  vorrebbe  vivere
          queste consapevolezze astenendosi. Il consiglio che dà a se stessa è, ogni
          volta  che  s’innamora,  quello  di  non  concedersi.  L’amore  partecipa  della

          strategia e usa le tattiche della politica e della guerra. L’opinione di Cressida
          che una donna conquistata non è più nulla si potrebbe applicare come tutti
          sanno ad altre esperienze, ad altri personaggi. Ma è difficile esser costanti
          anche  in  questo,  e  resistere  a  lungo.  Alla  fine  sia  Cressida  che  Achille

          interrompono la loro astensione. Sarà per ambedue la rovina, anche se c’è
          ancora una speranza di salvarsi dal nulla e assicurarsi una sopravvivenza, sia
          pure  negativa,  nel  tempo  a  venire,  con  la  propria  fama.  Ne  sono  coscienti
          Troilo e Cressida, subito prima di passare la loro unica notte assieme.

          Soffermiamoci su questo episodio posto all’incirca alla metà dell’opera (III, ii).
          I due amanti, con il beneplacito e il sigillo di Pandaro, espongono una sorta di
          proclama  dei  loro  destini  nella  memoria  delle  genti:  Troilo  conserverà  in
          futuro  la  sua  identità  come  emblema  del  vero  e  della  fedeltà,  Cressida

          prevede e teme di restare come l’eterno emblema del falso, e Pandaro fa da
          profeta  a  se  stesso  prevedendo  che  il  suo  nome  acquisterà  il  senso
          disdicevole di ruffiano. È un discorso, questo, evidentemente metaletterario,
          in cui i personaggi prevedono di dover assumere nel futuro le identità astratte

          e allegoriche delle figure di un morality play. Ma è partendo da questa scena
          che la maggior parte dei critici, incluso il Foakes, interpreta i personaggi e
          l’opera,  e  che  John  Bayley,  ad  esempio,  afferma  che  i  due  personaggi
          eponimi,  Troilo  modello  di  fedeltà  e  Cressida  d’infedeltà,  devono  e  non

          potrebbero  non  essere  imprigionati  nel  ruolo  già  fissato  per  essi  dalla
          tradizione.
   2576   2577   2578   2579   2580   2581   2582   2583   2584   2585   2586