Page 2584 - Shakespeare - Vol. 2
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cavalleresche,  abbracci  tra  nobili  nemici  che  si  ricordano  d’essere  parenti,
          scambi di prigionieri “raccomandati” e tresche amorose da una parte all’altra
          (se Troilo e Diomede sono rivali per Cressida, il grande Achille si distrae dal
          suo drudo per innamorarsi di Polissena), connivenze come quella di Ulisse che

          accompagna Troilo a spiare Diomede. La guerra di Troia è quasi un pretesto
          farsesco ma sanguinoso per dar modo ai guerrieri di una parte e dell’altra di
          gareggiare per la conquista della Fama e dell’Onore, concetti svuotati del loro
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          valore morale non solo dai cinici Greci ma anche dai «romantici»  Troiani:
          quando Ettore insegue e uccide un guerriero greco per rubargli la splendida
          armatura, la sua azione non è moralmente migliore di quella di Achille, che fa
          sopraffare e liquidare brutalmente Ettore dai suoi Mirmidoni per poi attribuirsi
          la gloria dell’impresa, un po’ come farà Falstaff col terribile Hotspur nell’Enrico

          IV.  I  personaggi  di  questa  tremenda  “farsa”  insistono  a  distinguere  Greci  e
          Troiani,  come  distinguono  maschi  e  femmine,  solo  per  esimersi  dal  più
          difficile  compito  di  distinguere  tra  individui  e  rispettare  le  differenze  di
          ognuno.  In  questo  “mito”  così  demistificato  gli  “eroi”  sono  sempre  in  gara

          l’uno  con  l’altro  per  il  possesso  di  qualcosa,  litigano  come  lavandaie  e
          s’insultano, accusano e calunniano a vicenda, ciascuno in preda alla sua follia.
          Si ricordi la scena del primo atto in cui il barone Pandaro, affacciato con la
          nipotina a godersi il rientro degli eroi dalla battaglia − dove si recano ogni

          mattina  come  per  uno  sport,  una  gara  d’emulazione  −  riduce  ogni
          personaggio  della  sfilata  a  un  tipo  astratto  che  allegorizzi  questa  o  quella
          virtù, mentre Cressida par rifiutare l’assegnazione a ciascuno di un punteggio,
          e vede ognuno come se stesso e basta. Anche qui Cressida si distingue dalla

          generale mascherata dell’onore e delle virtù, e si dimostra una outsider, che
          come  tale  può  anche  dirsi  la  più  vicina  alla  visione  shakespeariana  del
          mondo. Una qualità, questa della ‘povera’ Cressida, più unica che minoritaria,
          e  ferocemente  condannata  da  tutti  gli  altri,  dalla  maggioranza  interna  al

          dramma  e  da  quella  dei  suoi  spettatori  o  lettori.  Perché,  col  semplice
          mostrare drammaticamente la sua eroina, senza bisogno di condannarla o di
          approvarla,  Shakespeare  ce  l’ha  consegnata  come  figura  antitradizionale,
          anticonvenzionale,  e  nonostante  le  sue  debolezze  e  i  suoi  difetti,  come

          persona che possiamo dire umanissima e positiva. Henryson l’aveva punita
          con  la  lebbra,  marchio  fisico  della  sua  bassezza  morale:  e  come  una
          lussuriosa  infedele  Cressida  passerà  nelle  opere  cinquecentesche  di
          Whetstone, di Gascoigne e di altri. Shakespeare tace. E tacendo demistifica

          non solo i due amanti e il loro paraninfo, ma l’intera visione edificante che il
          Medioevo  aveva  costruito  della  “materia  di  Troia”.  Shakespeare  parodizza
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