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tradizione medievale (escluso forse il Boccaccio che troppo ama non solo il
          corpo ma anche l’animo femminile), va assegnata più a Cressida che a Troilo.
          Il  discorso  di  Ulisse  sul  “grado”  e  sulla  “catena  dell’Essere”  (I,  iii),  cui  ho
          accennato,  è  stato  più  che  sovente  letto  come  una  difesa  dell’importanza

          delle differenze, la perdita delle quali, ben sistemate in un ordine cosmico di
          gradualità e di rango, porterebbe il mondo alla violenza e al caos. Il discorso
          forse altrettanto famoso − ma famoso anche per la difficoltà che presenta
          all’interpretazione − di Troilo su Cressida ( V, ii), è una parallela constatazione

          della  perdita  d’identità  quando  la  differenza  (in  questo  caso  fra  Troilo  e
          Diomede) viene meno. Troilo, lo sì è visto, riasserisce la sua differenza da
          Diomede  postulando due Cresside,  cioè  rifiutando  alla  Cressida  vivente  il
          diritto ad una differenza individuale, e il diritto alla consapevolezza che in una

          coscienza  umana  ci  sono  più  inquilini,  che  l’io  non  è  unità  compatta  e
          coerente. Non ci sono due sole Cresside, come decide Troilo con giudizio di
          cassazione  (una  sua  e  una  di  Diomede),  ma  c’è  una  Cressida  per  ogni
          persona che si incontra: facce, dirà T.S. Eliot, che prepariamo per incontrare

          le  facce  che  incontriamo:  entità  atomizzate,  frammenti  dell’io  che  si
          condizionano a vicenda, ma che non possono rivendicare alcuna autonomia.
          D’altra  parte,  l’interessata  mistificazione  di  Cressida  che  Troilo  compie
          nell’atto quinto trova il suo pendant ideologico nel discorso di Ulisse (I, iii), il

          discorso  troppo  a  lungo  considerato,  sulla  scia  del  fortunato  ma  poco
          dialettico  saggio  di  E.M.  Tillyard, The  Elizabethan  World  Picture (1943),  un
          messaggio indiretto dell’autore e una sintesi della visione del mondo di tutta
          un’epoca.  Ma  ciò  che  Ulisse  auspica  in  quel  discorso,  com’è  stato  ormai

          chiarito da varie parti, non è che un ordine e una gerarchia imposti dall’alto,
          una catena dell’Essere non ontologica ma ideologica, e precisamente il ferreo
          e  ingiusto  ordine  di  dominio  dei  potenti  di  turno,  di  una  sequela  di
          imperialismi storici che giunge fino a noi. Ulisse rimpiange astutamente, di

          fronte  ad  Agamennone,  la  disgregazione  della  gerarchia  “ontologica”  nel
          presente, ma farà come quello che predica bene e razzola male, e sarà lui
          stesso a svelare la mistificazione interessata del suo gran discorso, quando
          (II, iii) consiglierà un espediente perché la sfida di Ettore venga accettata da

          Aiace e non da Achille: un imbroglio che mal si concilia col suo preteso ordine
          ontologico,  etico  e  razionale,  e  sembra  andare  più  d’accordo  con  una  fede
          nell’intervento  arbitrario  della  Fortuna  e  del  Caso.  Ma  non  solo  il  discorso
          mistificatorio di Ulisse, la stessa guerra di Troia si rivela gradualmente come

          una  grande  mistificazione,  già  per  i  molti  e  continui  scambi  e  rapporti  che
          collegano  le  due  parti  e  rendono  difficile  una  netta  distinzione:  sfide
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