Page 2504 - Shakespeare - Vol. 1
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amore carnale e amore spirituale, identifica fumosamente amor e caritas, ed applica il solito
    moralismo ipocrita che regola i rapporti amorosi nella convenzione letteraria verniciata di
    petrarchesca idealizzazione. Shakespeare mostra tutto senza partecipare, studia l’eloquio
    galoppante e spigliato del personaggio, il cui moralismo interessato tende dopo tutto a fare il paio
    col concetto dell’amore nelle damine francesi e nelle fanciulle per bene di ogni tempo, e si guarda
    bene dal fare il proprio messaggio di questa tirata del suo “eroe”, come certo non lo farà col
    finale “morale e sublime” della sua trama d’amore.

38 IV, iii, 343-345 Ecco infatti che dalla battuta a doppio senso di Berowne, sul modo pratico di
    rapportarsi con le ragazze, salta fuori, dalla mascheratura sublime, il vero discorso implicito: But
    be first advised / In conflict that you get the sun of them gioca sull’omofonia di sun e son, e
    mentre finge di voler dire: «Attenti nell’urto di mettervi dalla parte più vantaggiosa, col sole alle
    spalle», dice in realtà: «Attenti a metterle incinte per averne un figlio». Sembrerebbe che la
    nuova “filosofia” di Berowne e dei suoi amiconi non sia quella dell’Amore che muove il sole e le
    altre stelle, ma quella del vecchio demone Eros, e che nel farsi mistico egli non sia che
    mistificante, e che a renderlo meno falso gliene resti almeno il rimorso. Si noti anche, in vista
    della controversa battuta finale della commedia (vedi qui la nota 60), l’accenno al v. 319 al «liuto
    risplendente d’Apollo», che connette Apollo alla nuova retorica amorosa del gruppo maschile e di
    quello femminile, ben contraria all’ “aspro linguaggio” della sapienza di Mercurio. Ma su questo
    torneremo. Per il momento conviene notare, come s’è accennato, che nella battuta finale della
    scena lo stesso Berowne si dimostra cosciente dell’inganno che c’è nel proprio ragionamento e
    nella propria “nuova” retorica: «Chi semina loglio non raccoglie grano» dice il giovinotto in un
    momento di lucidità, e conclude: «Coi nostri mezzi fasulli avremo soltanto ciò che meritiamo».
    Infine, c’è da rilevare che quest’ultima battuta di Berowne presenta al v. 360 un probabile
    problema testuale. Il verso dice:
    And justice always whirls in equal measure.
    Whirls (‘gira’, ‘rotea’, ‘vortica’) è un termine inatteso per la Giustizia che, pensa Berowne, non fa
    eccezioni nel pesare con la sua bilancia ognuno dei mortali. Ci si aspetterebbe il termine weighs
    (‘soppesa’, ‘pesa’) e non whirls, che s’addice molto di più al volgere della ruota della Fortuna.
    Che Shakespeare abbia identificato irrazionalmente, nel pensiero del suo “eroe”, le antiche dee?
    O si tratta di un errore del tipografo dell’in-quarto, che non è riuscito a leggere il termine scritto
    male nel manoscritto, e l’ha interpretato di testa sua, seguito nello sbaglio dal tipografo dell’in-
    folio?

39 ATTO V Ho detto di questo atto di lunghezza spropositata nella divisione artificiale della
    commedia che appare nello in-folio. L’atto è diviso in una breve scena clownesca (si veda la nota
    successiva) e in una sterminata scena seconda che copre più di un terzo della durata
    complessiva dello spettacolo. Essa occupa il pomeriggio e la sera del terzo giorno dell’azione, e
    raccoglie in un “conclave” finale tutti e tre i gruppi dei personaggi, giovani navarrini, damine di
    Francia e clowns della domestica “Arcadia”. È in realtà la parte seconda e conclusiva di un’azione
    unitaria, e l’effetto drammatico cumulativo la intensifica e carica di drammaticità, colpi di scena
    efficacissimi e significati molteplici. Vi si svolge gran parte dell’azione del play, con i suoi ultimi
    rovesciamenti comici e tre grandi scene “metateatrali”, prima che un’originale cadenza metta
    fine alla fuga dell’opera.

40 V, i È l’ultimo happening linguistico della commedia, una scena che sta tra la farsa aristofanesca
    e l’allucinazione dell’assurdo, e conviene soffermarvisi con qualche commento, perché l’elemento
    farsesco in Shakespeare è stato da sempre sottovalutato o svalutato, e ben pochi, anche in
    area inglese, mi pare che ne intuiscano la rilevanza come ostensione di un aspetto misterioso e
    non facile a definirsi della condizione e dell’esistenza umana. Ciò che ci insegnano i clowns non va
    preso sottogamba, come han capito nel nostro secolo artisti come Joyce, Beckett, Fellini e i
    grandi buffoni del circo e dello spettacolo, che per metà hanno il diritto di esser considerati attori
    tragici. Joyce ha certamente capito ciò che possiamo dire la sapienza drammatica della
    buffoneria di Shakespeare, se nell’episodio di Circe nello Ulysses ci dà a un tratto del volto di
    Shakespeare un’immagine misteriosa, inquietante e quasi inafferrabile, in bilico tra profonda
    saggezza e profonda follia, o colta nella sua partecipazione alla saggezza della follia, un’intuizione
    che io colgo anche nell’impressionante schizzo-ritratto che di Shakespeare ci ha donato Pablo
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