Page 1567 - Shakespeare - Vol. 1
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Non poco fiera dei suoi due gemelli,
ogni giorno mia moglie mi pregava
di tornare, ed infine, a malincuore
dissi di sì. Ma ahimè, troppo affrettata
fu la nostra partenza.
Solo a una lega appena da Epidamno,
quel mare che ubbidisce sempre ai venti
ci diede infausti segni di pericolo.
E non c’era speranza: i rari squarci
nel cielo oscuro, di una morte certa
parlavan minacciosi ai nostri cuori.
Io l’avrei accettata, quella morte,
ma il pianto disperato di mia moglie
alla vista di quel che ci aspettava,
i lamenti pietosi dei bambini,
che piangevan così, per imitarci,
senza sapere che cosa temessero,
mi spinsero a cercare in ogni modo
di rimandare il nostro triste fato.
E fu così: non c’era via d’uscita.
I marinai intanto si gettavano
sulla scialuppa in cerca di salvezza,
lasciando a noi la nave condannata.
Più premurosa dell’ultimo nato,
mia moglie lo legava a uno degli alberi
di scorta; e insieme a lui, ben stretto,
c’era uno degli altri due gemelli,
mentre io mi occupavo del secondo.
Lo sguardo fisso a quello fra i due bimbi
che si era stabilito di proteggere,
mia moglie e io ci tenevamo stretti
all’albero maestro, che seguendo
le correnti, via via fino a Corinto,
o così credevamo, ci sospinse.
Riapparso, il sole infine disperdeva
quegli orridi vapori, e col conforto
dei suoi raggi ci apparvero placati
i marosi. Lontano, all’orizzonte,
ecco allora due navi, che veloci
verso di noi venivano: la prima
di Corinto, quell’altra di Epidamno.