Page 701 - Galileo Galilei - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
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Somnium…, note 202, 204 e 205, in John Lear, 1965, pp. 151-152). L’opera però venne
          pubblicata postuma nel 1634, ragion per cui possiamo limitarci ai testi dell’Astronomia
          nova.
          Oggi possiamo considerare le idee di Keplero una pietra miliare nella storia della teoria
          della gravitazione, con una valida promessa di futuro. Certo è comunque che in quel
          momento,  e  soprattutto  per  Galileo,  si  trattava  di  idee  che  si  riallacciavano  assai
          largamente al passato, idee cioè legate a una concezione tipicamente rinascimentale di
          netto sapore magico e occultistico, che Galileo considerava obsolete, pure chiacchiere
          che meritavano solo di essere dimenticate.
          Ci troviamo senza dubbio di fronte alla polarizzazione di due approcci concettuali, la

          tipica disputa interparadigmatica che vede confrontarsi due concezioni della natura, due
          ontologie  e,  di  conseguenza,  due  metodologie  radicalmente  diverse.  Senza  dubbio
          Keplero  si  collocava,  in  fatto  di  teoria,  agli  antipodi  del  meccanicismo  al  quale
          propendeva  Galileo  e  che  si  sarebbe  imposto  con  la  filosofia  cartesiana:  un
          meccanicismo che voleva farla finita con l’ingarbugliato e confuso mondo delle labili
          categorie  ontologiche  rinascimentali,  riducendo  l’universo  alle  «qualità  primarie»,  a
          corpuscoli che si muovevano in obbedienza alle rigide regole di leggi, uniche afferrabili
          ed esprimibili in termini matematici. Ma la storia della conoscenza è intricata e poco
          rispetto ha per la logica. Quanto al problema di cui ci occupiamo, non sarebbe stata la
          bellezza geometrico-meccanica di Galileo quella che avrebbe portato a una soluzione
          soddisfacente:  fu  Newton,  con  tutta  la  sua  confusione,  il  Newton  simpatizzante  di
          Keplero,  non  già  Cartesio  con  tutta  la  sua  chiarezza,  a  formulare  la  teoria  della
          gravitazione  che  avrebbe  permesso  di  orientarsi  efficacemente  nel  mondo  e  nella
          scienza e, quindi anche, la teoria destinata a spiegare le maree.
          49   Cesare  Marsili  (1592-1633)  divenne  membro  dell’Accademia  dei  Lincei  nel  1625,

          poco  dopo  aver  conosciuto  Galileo.  Credette  erroneamente  di  avere  scoperto
          un’alterazione rispetto alla direzione della linea meridiana tracciata sul pavimento della
          chiesa  di  San  Petronio  a  Bologna,  e  chiese  a  Galileo  di  fare  confronti  col  quadrante
          marmoreo e l’armilla di bronzo di Ignazio Danti in Santa Maria Novella. La lettera di
          Marsili è del 17 marzo 1631, data in cui da tempo Galileo aveva terminato il Dialogo.
          Questo passo è quindi senza dubbio un’aggiunta dell’ultimo momento di Galileo. Nel
          mese  successivo,  il  5  aprile  1631,  Galileo  gli  risponde  che,  se  si  potranno  compiere
          osservazioni  nei  quattro  o  sei  anni  successivi  ai  solstizi,  forse  si  potrà  accettare  la
          variazione di cui parla Marsili, non servendosi degli strumenti di Danti, bensì con un
          telescopio  già  da  lui  utilizzato  in  tentativi  di  scoprire  eventuali  cambiamenti  nelle
          «massime declinazioni dell’eclittica». Si veda Opere, XIV, pp. 225-226 e 239-241.
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             A Galileo erano venute in mente altre conclusioni possibili circa l’atteggiamento di
          Simplicio.  Lo  dimostra  uno  dei  Frammenti  pubblicati  da  Favaro,  nel  quale  Galileo
          scrive:  «SALV.  Qui,  Sig.  Simplicio,  voi  non  potete  sfuggire  di  confessare  che  per
          confermazione d’una delle 2 opinioni non siano state prodotte altre ragioni che nulla
          concludenti,  e  per  l’altra  che  possano  essere  state  addotte  dimostrazioni
          concludentissime: ora dite quali vi paiono le concludenti e quali le vane.
          SIMP. Io non dirò altro se non che può essere che per la parte che io stimo vera, non
          siano state prodotte né da Aristotile né da Tolomeo le vere e necessarie; il che non deve




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