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dopo  il  Goldoni,  che  a  teatro  potrebbe  dirsi  l’ultimo  esponente  del
          Rinascimento. E ciò mette anche il traduttore più dedito a durissima prova. Il
          presente  traduttore  ritiene  comunque  che,  almeno  in  parte,  par  possibile
          reinventare un analogo del discorso comico elisabettiano, se si è disposti a

          correre  il  rischio  dell’inattualità  e  dell’artificio  arcaistico,  tornando  ad
          attaccarsi  alle  mammelle  dell’italiano  machiavellico  e  rinascimentale,  se  è
          vero che nel Quattrocento, e nel Cinquecento non ancora contro riformista,
          l’italiano  fu  una  lingua  capace  in  potenza  di  evolversi  come  l’inglese  e  il

          francese, una lingua meravigliosa in costante fermento, in cui la tradizione
          classica e colta si fondeva con la realtà quotidiana del vernacolo; una lingua
          alta  e  bassa  insieme,  elastica  e  cangiante,  elegantissima  e  popolana,
          raffinata e artigianale, un magma corposo ed etereo, una mistura di vissuto e

          di fantasia, una lingua vivissima, scattante, divertente e sorprendente, ben
          lontana  dalla  mortificazione  e  dalla  sclerosi  della routine  letteraria.  Di
          arcaismi rivitalizzanti è imbevuto il lodato libretto di Arrigo Boito per il Falstaff
          di Verdi, e Boito ha sentito il problema e le istanze che ho detto. Qui si può

          solo  accennare  di  passaggio  ai  limiti  e  ai  caratteri  poco  shakespeariani  di
          Boito come “discepolo di Shakespeare”, alla sua riduzione tematica e alla sua
          inevitabile  romanticizzazione  della  materia:  il  suo  libretto  si  restringe  alle
          beffe  giocate  all’“eroe”,  la  coralità  windsoriana  sparisce  dal  titolo  e

          dall’azione, che si colora dell’illusionismo romantico dell’intreccio d’amore tra
          Fenton  e  Anna,  mentre  si  positivizza  eccessivamente  il  personaggio  di
          Falstaff,  permeato  dallo  spirito  dell’ironia  e  della  beffa  che  è  sentito
          romanticamente nel cuore dell’essere. La presente traduzione è dedicata a

          Barbara e Giorgio Melchiori.




          Bibliografia per «Le allegre comari di Windsor»



          TESTO
          Il  testo  seguito  in  questa  traduzione  è  quello  curato  da  H.J.  Oliver  per  lo

          Arden  Shakespeare  (Londra  1971).  Si  sono  tenute  presenti  e  preferite  in
          alcuni casi (il più rilevante, indicato in nota, è l’aggiunta di un verso dopo IV,
          iv,  42)  l’edizione  a  cura  di  G.H.  Hibbard  per  il New  Penguin  Shakespeare

          (Harmondsworth  1973),  e  quella  a  cura  di  T.W.  Craik  per  lo  Oxford
          Shakespeare (Oxford-New York 1990).


          TRADUZIONI ITALIANE
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