Page 2011 - Shakespeare - Vol. 2
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22 IV, i, 67 e sgg. Comincia tra Orlando e Rosalinda un giocar di termini che si riesce malamente a
                 tradurre. Il gioco è tra “to be out of matter” (essere a corto di argomenti) e “to be out” o “to be
                 out  of  suit”  che  può  voler  dire  “abbandonare  il  corteggiamento”,  oppure  “uscir  fuori  dai  propri
                 vestiti”, cioè spogliarsi. Si rende il gioco come è possibile e comunque non si perde molto, perché
                 Rosalinda qui è fuori forma, troppo sconvolta dalla presenza dell’amante e dal desiderio che sente in
                 sé, e il suo gioco d’arguzia scade e diviene troppo evidentemente un compenso per la sua voglia (la
                 storia di sposarsi per finta è un caso da analisi). Questa campionessa dell’ingegno manieristico qui si
                 perde in qualche lungaggine. E si accentua d’altra parte l’ambiguo sottofondo omosessuale tra i due
                 giovani  della  finzione.  Al  verso  78,  una  delle cruces del testo, abbiamo inteso “ranker” come “più
                 violento, più forte” (con la Agnes Latham) e il senso sarebbe, dice Rosalinda, che il suo ingegno, la
                 sua  abilità,  potrebbe  esser  più  forte  della  sua  stessa  virtù  nel  dare  scacco  matto  alla  corte  di
                 Orlando, ma col sottofondo, notato da Orlando, che Rosalinda sarebbe anche capace di spogliarlo
                 per portarselo a letto. Comunque Rosalinda controlla subito il suo ardore e riporta il senso di ciò che
                 dice (versi 80-81) al decoro e alla modestia.

              23 IV, iii, 85-88 Ci risiamo con il relativismo, come io credo, dei punti di vista. È stato notato dai filologi,
                 con molto sospetto di corruzione o interpolazione, che la descrizione dei proprietari del cottage fatta
                 per  sentito  dire  da  Oliver  è  “quasi  incomprensibile”  (Furness),  e  non  quadra  con  ciò  che  si  sa
                 dell’aspetto  delle  due  ragazze.  Qui  il  ragazzo,  che  sarebbe  Rosalinda  travestita  da  Ganimede,  è
                 descritto come bello e biondo (all’inizio del play si diceva che era più bruna della cugina), di aspetto
                 femminile  (e  questo  coglie  nel  segno)  e  dal  comportamento  di  “una  sorella  matura”,  cioè  di  una
                 sorella maggiore, nei confronti della donna che è Celia-Aliena, descritta come più bassa del fratello e
                 più scura di capelli. Andate a fidarvi dei testimoni! Ma questa è proprio la confusione tra realtà e
                 fantasia che è uno dei temi della commedia.

              24 ATTO V Siamo alla conclusione, si avvicinano l’agnizione manovrata dallo svelamento di Rosalinda
                 per quella che è, il conclave matrimoniale e il ballo finale. Si accentua, con un franco riconoscimento
                 di artificio, la dimensione metateatrale. Shakespeare scioglie la sua matassa pastorale “scoprendo gli
                 altarini”,  quasi  con  intenzione  di  Entfremdung  o  estraniamento  brechtiano:  ma  il  procedimento  è
                 antico  come  il  teatro,  va  da  Aristofane  a  tanti  elisabettiani  e  poi  al  John  Gay  dell’Opera  dei
                 mendicanti (1728). Qui però Shakespeare riesce a mantenere un equilibrio ammirevole tra fantasia
                 e  critica,  tra  l’artificio  evidente  e  il  fondo  simbolico  (G.  Wilson  Knight),  tra  gioco  metateatrale  e
                 realismo di base. La commedia si chiude utilizzando gli espedienti della mascherata (Mask, Masque)
                 e dello spettacolo di corte, con apparizioni emblematiche-allegoriche e con l’uso lievemente ironico
                 del deus  ex  machina.  Si  conciliano  dimensione  scherzosa,  cerimoniale,  e  solennemente  simbolica.
                 Tutto il mondo recita la commedia, come diceva Petronio citato da Montaigne, e questa commedia
                 è forse un sogno: cadono i tendoni dipinti dell’Arcadia, e tutti si apprestano a tornare a casa dove
                 vige  il  principio  della  realtà.  Ma  la  realtà  è  stata  pure  modificata  dal  sogno  stesso  dell’Arcadia,
                 l’illusione è leopardianamente necessaria per vivere, i sogni sono, diciamo marxianamente, tra i diritti
                 di tutti. Il tema della Fortuna regista del sogno e della commedia umana balza in primo piano, se qui
                 è  Imene  (anche  lui  finto  del  resto)  a  fungere  da  Caso.  Il  Caso  fa  incontrare  il  re  cattivo  con
                 l’eremita che lo converte (come annuncia il messo canonico Jaques de Boys) e tutti si ritrovano,
                 come nelle fiabe, ricchi e felici. Ma che tutto non vada proprio come nelle fiabe ce lo ricorda Jaques,
                 che alla vita di ritorno preferisce la frequentazione degli eremiti.
                 Inutile dunque denunziare l’artificio del mask al punto da vederlo come frutto di interpolazione o del
                 cedimento  a  una  moda  (come  Capell,  Dover  Wilson  e  altri  critici).  È  il  brio  aristofanesco  di
                 Shakespeare che ricorre al deus ex machina (ma lo facevano anche i più “seri” tragediografi greci),
                 o a mascherate come teatro nel teatro, a rotture alla grande della cornice illusionistica, anche a una
                 versificazione da strapazzo di cui sono responsabili i personaggi (anzi Shakespeare è bravissimo a
                 improvvisare versi un po’ alla carlona), e a balli e tableaux vivants finali, che poi si sciolgono quando
                 l’attore che dice l’Epilogo si fa al proscenio a salutare il pubblico e chiederne un cordiale congedo.
                 Shakespeare sa prendersi gran gioco delle convenzioni che usa. E allora non riterremo che questa
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