Page 102 - Francesco tra i lupi
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terne o cinquine, sembra corrispondere ad un unico obiettivo: tenere tutto nascosto ed evitare che si misuri
    limpidamente  il  consenso  sui  candidati  che  si  affermano  o  soccombono  in  una  votazione  democratica.
    Quanti  resistono  a  trasferire  direttamente  alla  base  episcopale  la  scelta  dei  propri  vertici  invocano  la
    motivazione  del  «peculiare  rapporto»  tra  la  Chiesa  italiana  e  il  pontefice,  nel  senso  che  la  «nomina  del
    presidente della Cei debba continuare ad essere riservata al papa, sulla base di un elenco di nomi» segnalati dai
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    vescovi .
      Non è l’unico nodo da sciogliere nella Cei. Il contrasto alla pedofilia vede la conferenza episcopale italiana in
    posizione  arretrata  rispetto  ad  altre  conferenze  episcopali  d’Europa  e  d’America,  che  hanno  organizzato
    strutture  nazionali  di  monitoraggio,  intervento  e  risarcimento  delle  vittime.  La  presidenza  Bagnasco  si  è
    tenacemente rifiutata di assumere responsabilità a livello nazionale. Il cardinale si è sempre trincerato dietro la
    posizione che la «Cei non ha autorità per costituire nulla... non tocca a noi creare strutture, ogni singolo
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    vescovo  opererà  in  base  alla  sua  valutazione» .  L’episcopato  si  rifiuta  inoltre  di  assumere  l’obbligo  di
    denunciare i preti colpevoli alla polizia o alla magistratura, con la motivazione che il vescovo non è pubblico
    ufficiale. È la posizione ribadita nelle Linee guida pubblicate dalla Cei nel marzo 2014, dopo che il documento
    elaborato nel 2012 per affrontare il fenomeno degli abusi del clero ai minori era stato giudicato insufficiente
    dalla Santa Sede.
      La Cei respinge ogni supervisione nazionale e ogni funzione di programmazione di strutture di ascolto e
    denuncia a disposizione delle vittime, dichiarando esplicitamente: «Nessuna responsabilità, diretta o indiretta,
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    per gli eventuali abusi sussiste in capo... alla Conferenza episcopale italiana» . Unica novità di rilievo rispetto
    al  documento  di  due  anni  prima  è  un  inciso.  «Nell’ordinamento  italiano  il  Vescovo,  non  rivestendo  la
    qualifica di pubblico ufficiale né di incaricato di pubblico servizio, non ha l’obbligo giuridico – salvo il dovere
    morale di contribuire al bene comune – di denunciare all’autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto
    in merito ai fatti illeciti oggetto delle presenti Linee guida». Di questo «dovere morale» la Cei non fornisce
    nessuna specifica, lasciandone l’interpretazione futura ai singoli presuli.
      Eppure proprio dalla voce di una vittima, Marie Collins, la cattolica irlandese violentata a tredici anni e
    chiamata da papa Francesco a far parte della commissione internazionale anti-abusi creata in Vaticano, viene
    una  richiesta  incontrovertibile:  «Che  si  arrivi,  se  i  casi  di  abuso  sono  accertati  e  la  vittima  consente,  alla
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    denuncia alle autorità civili» . Sottolinea la Collins: «Questo passo è decisivo».
      Il documento della Cei avverte i presuli italiani che, in base alla riforma del concordato nel 1984 e al codice
    di procedura penale, i «Vescovi sono esonerati dall’obbligo di deporre o di esibire documenti in merito a
    quanto conosciuto o detenuto per ragione del proprio ministero». La sottolineatura è tesa ad evitare che –
    come avvenuto negli Stati Uniti – l’autorità giudiziaria possa acquisire obbligatoriamente la documentazione
    di eventuali manovre di insabbiamento o colpevole disattenzione.
      Le  Linee  guida  affermano  peraltro  che,  qualora  da  parte  statale  siano  in  atto  indagini  o  sia  in  corso  un
    procedimento giudiziario, «risulterà importante la cooperazione del Vescovo con le autorità civili». E tuttavia
    la mancanza di un monitoraggio nazionale della Cei toglie forza all’esortazione di attivarsi per la scoperta del
    crimine e la collaborazione con gli organi statali. Persino l’obbligo canonico di istruire immediatamente da
    parte del vescovo – venuto a conoscenza di una segnalazione di abuso – un’indagine preventiva, allontanando
    il sospetto colpevole da incarichi pastorali, in Italia è stato spesso violato.
      L’esempio più clamoroso di mancato intervento episcopale in ambito diocesano e di totale disinteresse da
    parte  della  gerarchia  nazionale  è  rappresentato  dal  caso  di  don  Ruggero  Conti,  condannato  in  appello  a
    quattordici anni e due mesi di reclusione per avere abusato di alcuni minori tra il 1998 e il 2008. La vicenda,
    svoltasi in una parrocchia dell’area metropolitana romana, è esplosa nel 2008: il vescovo competente, mons.
    Gino Reali (diocesi suburbicaria di Porto-Santa Rufina), benché avvertito, non aprì un’indagine canonica e
    finora – nonostante due condanne – non è stata resa nota l’apertura di un processo ecclesiastico contro don
    Conti.
      La  sfida  maggiore,  tuttavia,  con  cui  la  Chiesa  italiana  deve  confrontarsi  è  rappresentata  dal  rapido
    smottamento dell’adesione giovanile al cattolicesimo istituzionale. L’immagine della realtà italiana come di
    una «Chiesa di popolo» è destinata a logorarsi. Un’indagine svolta nei primi anni del nuovo secolo nella diocesi
    di  Venezia  ha  monitorato  la  partecipazione  giovanile  alle  messe  in  un  fine  settimana  di  novembre.  «La
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