Page 885 - Shakespeare - Vol. 4
P. 885

Macbeth  (il  dialogo  tra  Antonio  e  Sebastiano  che  congiurano  contro  il  re
          Alonso attinge certo alla «tentazione» di Lady Macbeth − come anche, del
          resto,  a  quella  di  Iago,  e  a  quella  di  Cassio  nel Giulio  Cesare);  e  ancora
          Romeo  e  Giulietta,  Pene  d’amor  perdute,  il Sogno,  Come  vi  piace  e  altre

          commedie  (e,  per  il  «teatro  nel  teatro»,  come  non  ricordare La  bisbetica
          domata, dove l’intera opera è una rappresentazione teatrale e, naturalmente,
          Amleto?). Queste e altre opere, questi e altri personaggi, riecheggiano nella
          Tempesta  (per  non  parlare  dei Sonetti,  e  delle  opere  non  drammatiche,

          attraverso  cui  filtra  il  legame  con  l’Eneide  e  le Metamorfosi)  e  il  discorso
          potrebbe continuare a lungo. Quello che però, ora, importa osservare è che
          questa «ripetizione», come la definisce Kott, non è motivata, in profondo, da
          una  pur  possibile  nostalgia,  né  dalla  pur  possibile  aspirazione  a  fare  un

          compendio,  e  una  celebrazione,  del  proprio  lavoro.  La  vera  motivazione,  a
          mio avviso, sta nel fatto che il teatro, nella Tempesta, non è soltanto (come
          del resto la musica) strumento di controllo, tessuto connettivo, ma è anche
          oggetto di rappresentazione. Più che qualsiasi altra opera precedente − dove

          pure il teatro è stato oggetto di discorso, perché sempre, dal principio alla
          fine appunto della sua carriera, Shakespeare ha parlato del proprio mestiere
          − la Tempesta è metateatro, teatro che riflette su sé stesso, che si analizza,
          si esamina, si mette in discussione. Qui è la vera ragione dell’uso di sé stesso

          come  «materiale»,  come  «mito»,  che  Shakespeare  fa.  Ed  è  qui  anche  la
          ragione, a quella intrecciata, dell’anatomia del teatro che qui viene operata,
          sì  che  il  teatro  viene  scomposto,  rivelato  nei  suoi  segreti,  nei  suoi
          meccanismi,  e  trucchi,  e  oggetti.  Se  Polonio,  nella  sua  famosa  battuta,

          evocava «tragedia e commedia, dramma storico, pastorale, comico-pastorale,
          pastorale-storico,           storico-tragico,         storico-pastorale-tragicomico»,                sul
          palcoscenico  della Tempesta appaiono, ora appena abbozzati, ora avviati e
          poi interrotti nel loro svolgimento, pressoché tutti i «generi» − del passato e

          del  presente  −  che  fanno  la  vita,  e  la  storia,  del  teatro.  C’è  appunto  la
          commedia e c’è la tragedia; c’è la commedia romantica e quella pastorale; c’è
          il dramma storico e il romance; c’è il masque e l’antimasque; il tableau vivant
          e la farsa; e c’è persino, attraverso le straordinarie maschere di Stefano e

          Trinculo, la commedia dell’arte. Non solo, ma l’anatomia risale ad un passato
          più lontano e, andando al di là dello stesso dramma medievale, che pure è
          evocato,  tocca  le  origini  stesse  del  teatro,  i  riti  di  fertilità  e  purificazione:
          Prospero  è  drammaturgo  moderno,  elisabettiano,  ma  è  anche  sciamano.  E

          tutto questo, d’altra parte, questo spettacolare e spettacoloso display non è
          sfoggio gratuito di virtuosismo (che pure indubbiamente c’è, perché solo un
   880   881   882   883   884   885   886   887   888   889   890