Page 890 - Shakespeare - Vol. 4
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diverso destino, tornando, con le parole di Prospero, «libero agli elementi».
          Ma  Ariel,  appunto,  come  egli  stesso  dice,  «non  è  umano».  Tra  gli  umani,
          anche coloro che dall’esperienza ricavano il massimo, Ferdinando e Miranda,
          il  cui  amore  è  l’elemento  più  ricco  e  positivo  che  dall’isola  nasca,  e  la  cui

          storia si identifica con il movimento verso la vita che l’opera riproduce (così
          come  riproduce,  però,  quello  verso  la  morte),  anche  Ferdinando  e  Miranda
          debbono riconoscere il limite del loro stesso amore. Sull’immagine splendida,
          di rinascimentale perfezione e armonia, dei due che giocano a scacchi nella

          grotta di Prospero, le poche battute del dialogo gettano un’ombra che non è
          meno cupa perché così ironica e aggraziata («Miranda. Mio adorato, tu bari.
          Ferdinando.  No,  carissimo  amore;  /  Non  lo  farei  nemmeno  per  il  mondo.
          Miranda.  Sì,  invece,  ma  anche  se  lo  facessi  /  Solo  per  qualche  regno  /

          Ugualmente ti direi / Che il tuo giuoco è leale», V, i, 172-75). E Prospero ha sì
          riottenuto il ducato, si è sì vendicato dei propri nemici, ha sì scoperto il valore
          della  pietà  (e  si  ricordi  il  dialogo  con  Ariel, V,  i,  21  sgg.).  Ma  ha  anche
          scoperto,  di  fronte  all’amore  (e  dunque  alla  vita,  alla  fertilità),  il  proprio

          futuro di solitudine e morte in quella Milano «Dove un pensiero su tre / Sarà
          per la mia tomba» (V, i, 310-11). E ha scoperto, insieme, il fallimento del suo
          sogno  faustiano  di  dominare  la  natura,  di  possedere  veramente  l’isola,  di
          controllare  Caliban:  «Un  diavolo,  un  diavolo  nato»,  esclama;  «Sulla  sua

          natura  l’educazione  /  Mai  potrà  attecchire»  (IV,  i,  188-9).  E  più  avanti,
          rivolgendosi  al  re:  «Due  di  questi  individui  /  Dovete  riconoscerli  vostri;  /
          Questa cosa del buio / La riconosco mia» (V, i, 274-6). Quale destino, d’altro
          canto,  attenderà  Caliban  −  il  solo,  possiamo  immaginare,  a  rimanere

          sull’isola?  Come  Prospero  ha  riavuto  il  suo  ducato,  così  Caliban  ha  riavuto
          l’isola,  ne  sarà  di  nuovo  il  signore.  Ma  proprio  l’esperienza  subìta,  prima  e
          dopo la tempesta (che egli è, in ogni caso, il solo a non vedere), ha ormai
          distrutto il rapporto che con l’isola aveva; il linguaggio che i bianchi, la civiltà,

          gli  hanno  dato,  non  può  più  servirgli  a  comunicare  con  le  voci,  con  il
          linguaggio  dell’isola:  e  allora,  pur  sapendo  che  i  bianchi  ingannano  e
          opprimono,  se  vorrà  comunicare,  se  vorrà  vivere,  non  potrà  che  attendere
          (come  la  storia  dimostrerà)  un  altro  sbarco,  un’altra  colonizzazione.  La

          conoscenza  che  egli  ricava  è  quella  della  propria  ineluttabile  condizione  di
          oppresso: «D’ora in poi sarò più saggio / E cercherò il tuo favore» (V, i, 294-
          5).
          Ma è soprattutto Gonzalo a dimostrare quale sia l’approdo del viaggio che i

          personaggi  compiono,  del  cammino  di  conoscenza  in  cui  la Tempesta
          consiste. Egli aveva creato sull’isola, con le parole di Montaigne, un mondo di
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