Page 882 - Shakespeare - Vol. 4
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con l’«uomo selvatico» − e non a caso tra le poche fonti dirette della
Tempesta vi sono da un lato alcune relazioni di viaggio e dall’altro il saggio
famoso di Montaigne sui cannibali tradotto da John Florio.
Questo, e altro ancora, è la Tempesta, e certo era necessario un
drammaturgo al culmine dei suoi poteri, della sua esperienza umana e
poetica e tecnica perché un materiale così fervido e vario, così contraddittorio
e incandescente potesse comporsi nell’ordine della forma. E il primo
strumento per conseguire tale risultato è quello del suono, della musica.
La musica era usata dai drammaturghi elisabettiani assai più di come non si
pensi comunemente − e quale importanza essa avesse per Shakespeare ce lo
ricordano le parole famose del Mercante di Venezia: «L’uomo che non ha
musica dentro di sé, / E che non si commuove all’udire il concerto di dolci
suoni, / È adatto ai tradimenti, ai raggiri, ai furti; / I moti del suo spirito sono
ciechi come la notte, / E i suoi affetti tenebrosi come l’Erebo. / Mai fidarsi di
un uomo simile» (V, i, 83-8). Ora, in nessuna opera shakespeariana se non
forse nel Pericle, la musica − e uso la parola in tutti i significati che essa può
assumere − è tanto presente come nella Tempesta, di cui è il vero e proprio
tessuto connettivo (e al punto che, se in questi ultimi drammi possiamo
scorgere un movimento verso la narrativa, nella Tempesta, come nel Pericle,
possiamo anche scorgere un movimento verso il melodramma). Qui c’è la
musica come accompagnamento ma anche, in quella prodotta da Ariel, come
strumento dell’azione e, ancor più, come nei songs dello stesso Ariel, in
quanto linguaggio capace di suggerire (come sarà del simbolismo
ottocentesco e novecentesco) ciò che la parola drammatica non è in grado di
esprimere compiutamente − proprio attraverso i songs, così, prende corpo
quel senso della perenne metamorfosi della realtà, del fluire incessante della
vita che è tra i motivi più suggestivi, seppur segreti dell’opera (e si pensi alle
parole di Ferdinando che crede il padre annegato: «Where should this music
be? i’ th’ air or th’ earth?...», I, ii, 390 sgg., e poi, appunto, al canto di Ariel:
«Full fadom five thy father lies:...», I, ii, 399 sgg.).
E c’è anche la musica come suono − il suono del mare, anzitutto, sempre
presente in tutta la sua varietà, dal ruggito iniziale alla finale quiete − del
mare come realtà fisica che definisca l’isola, faccia scoprire nuove terre,
trasporti navi, unisca continenti, e del mare sia come mito letterario, il mare
di Ulisse e di Enea, sia come simbolo di nascita e morte, metamorfosi (come
sarà in Joyce), mistero e sfida, infinito che racchiude il finito, assenza di terra
− come lo definirà Melville − che circonda la terra. E poi i suoni dell’isola − di