Page 227 - Oriana Fallaci - 1968
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simile inferno è un’avventura che può cessar bruscamente ogni
minuto. Volevo infatti recarmi a un altro ponte, quello che porta
a Bien Hoa, ma un ufficiale americano m’ha detto: «Non ha
udito quel botto? I vietcong lo hanno fatto saltare». Era un ponte
difeso ancora più di questo, sorvegliato metro per metro. Per
distruggerlo sono bastati pochi chili di dinamite, portati dal
vento. Che ha la forma umana di questi cadaveri verdi, lasciati lì
per illuderci che si può uccidere il vento. Non è vero. Non si
può uccidere il vento, e la notte quei morti resuscitano, con altri
corpi e altri volti. Vi sono, dentro Saigon, ben millecinquecento
vietcong.
Un po’ d’acqua per il vietcong
All’ippodromo i rangers sudvietnamiti hanno acchiappato due
fili di vento. Giacevano feriti da almeno tre giorni, senza bere,
senza mangiare, e i compagni non li avevano uccisi perché li
avevano creduti morti. L’ordine infatti è di non lasciare feriti:
trasportare feriti è impossibile e se un vietcong resta ferito i
compagni lo ammazzano con un colpo alla nuca perché non
venga preso prigioniero e non parli. I rangers li hanno portati
nell’ospedaletto da campo, che si trova proprio sulla pista dove
tre mesi fa correvano ancora i cavalli.
Le due barelle sono posate per terra e dai cartellini legati al
polso dei prigionieri risulta che uno è nordvietnamita e l’altro è
sudvietnamita. Il più grave è il nordvietnamita. Si chiama
Nguyen Van Gian e ha profonde ferite al ventre, una peritonite
ormai in atto, due fratture al femore destro. Con un’iniezione
ipodermica tentano di rianimarlo ma l’impresa è quasi
impossibile e forse morirà.
Il sudvietnamita invece se la caverà malgrado il suo corpo sia
pieno di pallottole: muove gli occhi, dà il nome, Thai Van Ty.
All’interrogatorio ha già risposto fornendo preziose
informazioni, ha raccontato che molti vietcong sono entrati in