Page 941 - Shakespeare - Vol. 3
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36-37, 252-253). Alla conclusione, il dilemma viene riproposto ( V, i, 58-60):
          ma  sappiamo  che  il  contrasto  apparenza/realtà  coinvolge  anche  gli  altri
          comprimari, che anche qui ogni rovesciamento sembra possibile o potenziale,
          che la contraffazione è in agguato o latente per quasi tutti; che il Duca se ne

          serve ampiamente e programmaticamente per la soluzione.
          La seconda problematica, a questa connessa, è che la soluzione si attua su
          un piano che non è quello esteriore dello scontro o dilemma drammatico, ma
          trascendendolo  e  per  così  dire  negandolo.  Giustizia  e  Clemenza  sono  alla

          conclusione  tutt’altro  che  equilibrate;  la  clemenza  per  Angelo  e  gli  altri
          “peccatori” è forzata (non come l’aveva prospettata Porzia nel celebre passo
          del Mercante di Venezia). La questione richiamata fin dal titolo − quella della
          “misura  per  misura”,  dell’equa  retribuzione  −  risulta  alla  fine  anch’essa

          paradossalmente  rovesciata:  il  Duca  distribuisce  non  la  biblica measure  for
          measure,  e  nemmeno  la  cosiddetta  giustizia  poetica,  bensì  una  sorta  di
          annichilimento d’ogni giusto rapporto, un appiattimento delle contrapposizioni
          problematiche  in  un  perdono  generale.  Egli  stesso  contraddice  quanto

          affermato nella tiritera alla fine dell’Atto III; la «spada del cielo» sarà santa,
          ma non è severa, sottomette ogni giustizia alla clemenza; la Grazia assume
          in sé la risoluzione di ogni conflitto e di ogni dialettica. Come aveva avanzato
          Claudio  all’inizio,  nella  sua  umana  saggezza,  non  c’è  logica  in  cielo:  «The

          words of heaven; on whom it will, it will; / On whom it will not, so» (I, ii, 120-
          121). Ma non ci soddisfa.
          Potremmo  dire  che,  sul  piano  drammatico,  è  l’ultimo  esempio  di  una
          contraffazione.  Si  ritorna  qui  alla  questione  del  genere  scelto  o  attuato  da

          Shakespeare  in  linea  con  le  predilezioni  del  periodo:  scrivere  uno  di  quei
          drammi ibridi, fra tragedia e commedia, una di quelle “tragedie a lieto fine” o
          tragicommedie  teorizzate  dal  Guarini  nel  suo Compendio  della  poesia
          tragicomica  (1601,  trad.  inglese  1602),  comporta  dapprima  una  forzosa

          accentuazione dei dilemmi, ma poi una loro soluzione puramente “teatrale”.
          L’ibridazione  di  Shakespeare  è  in  questo  caso  persino  eccessiva:  E.A.J.
          Honigmann  ha  notato  che  le  mescolanze  di  piani,  valori  e  tensioni  diverse
          sono analoghe a quelle dei pittori manieristi, o addirittura di un Arcimboldo,

          mentre c’è chi ha notato che la provvidenzialità del Duca indica una notevole
          incidenza  del  caos,  e  che  gli  stessi  modi  artistici  impiegati  entrano  in
          collisione.
          Il  dramma  lascia  insomma  un’impressione  di  tensione,  disordine,  e

          indeterminatezza. Se nel contrasto di fondo Morte/Vita teatralmente trionfa la
          Vita  (perché  non  muore  nessuno),  il  senso  e  la  presenza  della  morte
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