Page 930 - Shakespeare - Vol. 3
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quando sarà: «Moe reasons for this action / At our more leisure shall I render
          you», all’inizio (I, iii, 48-49); e proprio agli sgoccioli del dramma, quando tutto
          dovrebbe conchiudersi: «but fitter time for that», «There’s more behind that
          is more gratulate», «What’s yet behind that’s meet you all should know» ( V, i,

          490,  524  e  534,  l’ultimo  verso).  Può  essere  quasi  frivolo  in  momenti
          drammatici  (III,  i,  175),  enigmatico  e  sibillino  (III,  ii,  208-216),  legnoso  e
          sentenzioso (III, ii, 173-177 e 242-263). Usa di un’ironia un po’ amara, date le
          circostanze,  specialmente  sul  Vicario  da  lui  scelto  e  di  cui  conosce  la

          perversità (IV, ii, 74-80, V, i, 10-15). Ci tiene al ruolo di astante e osservatore,
          come  ribadisce  in V,  i,  314-316:  «My  business  in  this  state  /  Made  me  a
          looker-on here in Vienna, / Where I have seen corruption boil and bubble»,
          quasi per godersi lo spettacolo della corruzione.

          Non  stupiscono  allora  gli  estremi  della  sua  caratterizzazione  da  parte  di
          personaggi opposti come Lucio, da una parte, che insiste per celia, sulla sua
          corruzione  di  donnaiolo  e  scioperato,  sul suo  andare  per  strade  buie  e  vie
          traverse (con qualche elemento di convinzione), e come Escalo, dall’altra, per

          il quale il Duca è soprattutto «A gentleman of all temperance» (III, ii, 222:
          quindi perfettamente integrato e non diviso), impegnato, da filosofo antico, a
          conoscere  se  stesso  (III,  ii,  217-218).  Egli  stesso  si  autodefinisce,  in
          antagonismo a Lucio, «a scholar, a statesman, and a soldier» ( III, ii, 136-137:

          perfetto compendio del principe rinascimentale), e infine appare, lo si è visto,
          come una provvidenza divina («your Grace, like power divine», V, i, 366). Né
          stupisce  che  questa  caratterizzazione  progressivamente  trascendente
          all’interno  della  possibile  soluzione  ideologica  o  teologica  del  dramma

          coesista e si intersechi con i suoi procedimenti da «meddling friar» (V, i, 130),
          da  frate  impiccione  e  da trickster,  da  giocoliere  e  regista  fin  troppo
          spericolato.
          Sembrano  in  lui  racchiusi  due  aspetti  che  potremmo  definire  ossessivi  e

          portanti  della  cultura  elisabettiana  e  giacomiana:  il  gusto  per  la  teatralità
          (“bassa” e di corte), e il concetto della divinità del sovrano, se è vero che il
          Duca è in parte modellato o riflesso su Giacomo I. Va detto comunque che la
          sua  duplice  natura  è  più  funzionale  al  dispiegarsi  accidentato  del  dramma,

          specie nella seconda parte, che non intrinseca alle ragioni dell’animo: il Duca
          è infatti il più presente e attivo, anche statisticamente, dei personaggi, ma
          non al centro emotivo o conflittuale del dramma.
          Qui sono altri personaggi, nei quali le divisioni e le fratture sono non solo o

          non  tanto  sul  piano  dell’azione,  ma  all’interno  dell’animo,  delle  tendenze  o
          pulsioni inconfessate o inconsce, del profondo che venendo alla luce tradisce
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