Page 66 - Francesco tra i lupi
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impara a respingere la tentazione delle scelte brusche. Il nuovo Bergoglio oggi lo dice esplicitamente: «Diffido
sempre della prima decisione, cioè della prima cosa che mi viene in mente di fare... In genere è la cosa
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sbagliata. Devo attendere, valutare interiormente, prendendo il tempo necessario» .
Padre del Viso riassume: «Da arcivescovo la sua cifra è il compañerismo, non l’autoritarismo»: cioè il clima di
vicinanza con il clero. «Se un prete era preoccupato per la salute della mamma, diceva: vai da lei, resto io in
parrocchia per tre giorni».
Nello stretto contatto con i sacerdoti della diocesi manifesta un’intensa spiritualità e incoraggia
sistematicamente a praticare l’attenzione misericordiosa alle vicende esistenziali dei fedeli. Da arcivescovo
affina l’estrema sensibilità ai problemi sociali, che gli è propria da molto tempo.
Trent’anni dopo la sua esperienza di superiore provinciale dei gesuiti Bergoglio è pronto a riconoscere: «Dio
mi ha rialzato dopo le cadute lungo il mio cammino, mi ha aiutato soprattutto nelle tappe più dure... a poco a
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poco ho imparato» . A Buenos Aires sviluppa il senso autocritico: «A volte nell’affrontare un problema mi
sbaglio, mi comporto male e poi devo tornare indietro a chiedere scusa... mi fa bene, perché mi aiuta a
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comprendere gli errori degli altri» .
Nel crogiolo di una metropoli multimilionaria impara cosa significhi fare lavoro di squadra con i vescovi
ausiliari, partecipando alle riunioni dei preti di borgata, ascoltando gli insegnanti delle scuole cattoliche che
raggruppano il 50 per cento degli alunni cittadini, confrontandosi – spesso in conflitto con i governi, specie
quelli dei due Kirchner – con la società politica, misurandosi con il pluralismo culturale e l’incontro con ebrei,
musulmani, cristiani dei movimenti evangelici.
Francesco non viene dalla «fine del mondo», come con un pizzico di autoironia racconta ai fedeli la sera
dell’elezione. Francesco è il primo papa nato, cresciuto e vissuto in una metropoli contemporanea. Il
pontefice argentino, pur proveniente da un’area lontana dall’Europa, è l’unico nutritosi dell’esperienza
tumultuosa, drammatica e variegata di una città gigantesca, intorno a cui gravitano tredici milioni di abitanti.
Ratzinger, Roncalli, Wojtyla e Luciani sono tutti nati in paesini di provincia e anche nel corso della loro
carriera ignorano il ritmo della metropoli. La Cracovia del futuro Giovanni Paolo II, la Milano del futuro Paolo
VI impallidiscono rispetto alla complessità e alla violenza dei contrasti di Buenos Aires.
La Roma fra le due guerre, in cui è cresciuto nel secolo scorso il futuro Pio XII, ha un’aria di provincia
nonostante la retorica imperiale mussoliniana. La segreteria di Stato vaticana, in cui sono maturati Pio XII e
Paolo VI, costituisce un osservatorio raffinato e di grande finezza intellettuale, ma la dimensione della
metropoli è altra cosa.
Già a metà del XX secolo una metropoli è un anticipo di globalizzazione e gigantismo (anche nei problemi
da fronteggiare), è una mescolanza pulsante di razze, culture, fedi e stili di vita contrastanti. L’imprinting è
diverso. Chi è vissuto in una metropoli conosce il ritmo del transatlantico e non quello della barca.
Quando era arcivescovo a Buenos Aires, Bergoglio ha imparato a fare i conti con una secolarizzazione
identica a quella delle grandi aree urbane dell’emisfero settentrionale. «Nell’insieme della nazione – spiega il
suo ex addetto stampa padre Guillermo Marcó – l’87 per cento si dice cattolico a fronte di un 9 per cento di
evangelici. Ma a Buenos Aires si dichiara cattolico unicamente il 60 per cento. A messa va il 12 per cento».
Poi la devozione popolare si esprime attraverso altri canali: i milioni di pellegrini che vanno al santuario della
Vergine di Luján o partecipano alla processione per San Gaetano, “protettore del pane e del lavoro”. Però il
processo di autodeterminazione nelle scelte religiose e morali è molto avanzato sebbene esistano naturalmente
differenze tra le aree urbane e quelle rurali.
Un’inchiesta Ceil/Conicet, pubblicata nel 2013 dal maggiore centro di ricerca argentino, rivela che il 91 per
cento della popolazione crede in Dio, ma solo il 23 per cento ritiene sia necessaria la mediazione
dell’istituzione ecclesiastica, mentre il 61 per cento preferisce relazionarsi direttamente con la divinità.
L’individualizzazione della vita religiosa si manifesta nella quota alta di quanti pregano regolarmente a casa: il
73 per cento nelle grandi città e l’86 in quelle piccole.
A partire da chi ha un’istruzione primaria completa, oltre il 60 per cento è a favore dei preti sposati e più
della metà ritiene che si debba permettere il sacerdozio femminile. Cartina di sole del radicale mutamento
socio-culturale è la risposta alla domanda se le relazioni intime prima del matrimonio siano positive sia per
l’uomo che per la donna: il «sì» schiacciante dei fedeli cattolici – tra chi ha meno di quarantaquattro anni –