Page 1777 - Shakespeare - Vol. 4
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costituito  una  sorta  di  caposaldo  nella  critica  formale  dei Sonetti
          shakespeariani.  Jakobson  e  Jones,  con  un  rigore  metodologico  forse  mai
          eguagliato, enucleano le strutture interne del sonetto 129, ponendo in luce
          un  numero  di  corrispondenze  e  contrapposizioni  tale  da  far  apparire  la

          composizione  come  l’analogo  di  una  elaboratissima  e  perfetta  struttura
          architettonica.  Non  a  caso,  infatti,  il  saggio  si  conclude  con  osservazioni
          polemiche nei confronti di critici del passato che avevano giudicato il sonetto
          129  privo  di  qualsiasi  organizzazione  interna  (J.  Crowe  Ransom),

          caratterizzato da «verbal impotence» (J.M. Robertson) e da rime casuali (E.
          Hubler).
          Una analisi siffatta ovviamente non è parafrasabile. Rimane solo da dire che
          essa, considerata un piccolo capolavoro negli anni in cui comparve (quando,

          per  reazione  alla  critica  impressionistica,  si  applaudiva  a  un  rigore
          formalistico  assoluto),  oggi  può  forse  considerarsi  sorpassata,  in  quanto,
          superata  quella  fase,  l’indagine  su  un  micro-testo  e  l’enucleazione  di  mere
          forme non suffragata da una interpretazione dei loro significati, superficiali o

          profondi, non rispondono alle esigenze di una critica completa.
          Regge  invece  ampiamente  il  confronto  con  gli  anni  la  magistrale  analisi  di
          Marcello  Pagnini  del  sonetto  20;  e  ciò  perché,  pur  limitata  a  una  sola
          composizione,  essa  si  avvale  di  un  vasto  panorama  di  riferimenti

          antropologico-filosofico-letterari.  Enucleate  infatti  le  geometrie  interne  del
          sonetto,  articolato  secondo  simmetrie  e  modularità  orizzontali  e  verticali,
          Pagnini  ne  discute  le  derivazioni  culturali:  ad  esempio,  l’archetipo
          dell’armonia delle parti che, egli nota, sottende «sia come razionalizzazione

          dell’universo, sia come idealizzazione dell’esperienza nella varietà delle arti»
          (p. 130 in Critica della funzionalità) le forme più remote della nostra civiltà; e
          i riferimenti vanno dagli antichi mandala a Pitagora, a Platone, all’Harmonica
          Mundi di Keplero, dal «principio estetico della ripetizione di misure isocrone e

          isomorfe»  (p.  131)  che  informa  l’arte  di  sumeri,  persiani,  egiziani,  greci,
          bizantini  e  cristiani,  ai  trattati  rinascimentali  sulle  leggi  di  proporzione  e
          corrispondenza nel creato. Altra derivazione culturale sviscerata dal Pagnini è
          quella dell’Uomo Cosmico che comprende in sé i due sessi, di antichissima

          matrice  riproposta  in  epoca  classica  e  ripresa  nel  «topos  rinascimentale
          dell’Ermafrodito». E naturalmente non mancano gli agganci ai codici letterari
          epocali,  quali  l’eloquio  poetico  e  la  «ideal  courtship»,  cui  Shakespeare  si
          conforma  pur  nel  continuo  «scarto»  ed  elusione  che  fondano  la  sua  arte

          inimitabile.
          Diversi,  ma  utilmente  complementari,  appaiono  l’impostazione  e  i  risultati
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