Page 1746 - Shakespeare - Vol. 2
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95 III, vi, 146 La franca ammissione di Enrico è forse anche un espediente tattico per dare esca alla
                 ben nota hubris del nemico. E questa è guerra psicologica.
              96 III, vii La scena si sposta a Agincourt, al campo francese. Fra i nobili presenti, Rambures è il capo
                 dei balestrieri, e Orléans è Charles (1394-1465), nipote del Re e capo della fazione che si oppone ai
                 Duchi di Borgogna (fatto prigioniero ad Agincourt, resterà in Inghilterra per 25 anni, e qui affinerà le
                 sue  qualità  di  raffinato  poeta).  Nel  Q  il  personaggio  del  Delfino  è  sostituito  dal  Duca  di  Borbone,
                 sostituzione tanto più credibile in quanto, storicamente, il Delfino non fu presente ad Agincourt. Ma
                 nessun curatore ha mai accettato la sostituzione, eccetto Gary Taylor, nella sua eccellente edizione
                 del 1984. Può darsi che lo stesso Shakespeare abbia, a suo tempo, “ripensato” la scena. L’assenza
                 del Delfino comporta un diverso giudizio sui capi francesi. Essi scherzano da pari a pari, e il Borbone
                 che qui si dimostra fatuo e fanfarone (sia pure per scherzo) si comporterà sul campo in modo ben
                 diverso da quel che le ironie del Connestabile fanno presentire: sarà anzi l’unico, nel momento della
                 disfatta, a non perder la testa e a lanciarsi al contrattacco. Se invece il Delfino resta al centro della
                 scena,  avremo  un  erede  al  trono  che  impersona  i  vizi  attribuiti  alla  sua  nazione  (frivolezza  e
                 presunzione), un Orléans adulatore, un Connestabile critico verso il suo principe (soprattutto dopo
                 che  è  uscito  di  scena).  E  il  Delfino  avrà  disobbedito  a  suo  padre  per  poi,  sul  campo,  svanire  nel
                 nulla.  La  logica  drammatica  esige  comunque  che  Enrico  si  trovi  di  fronte  un  avversario  del  suo
                 stesso rango: colui che l’aveva imprudentemente sfidato.
              97 III, vii, 13 Letteralmente: “come se le sue viscere fossero di crine” (il crine di cui s’imbottivano le
                 palle  da  tennis).  Il  Delfino  s’imbarca  in  un’esercitazione  letteraria  in  piena  regola,  del  genere
                 «variazioni  sul  tema»  in  stile  barocco-rinascimentale  con  figurazioni  mitologiche,  teoria  dei  colori,
                 contrasto dei quattro elementi e ampio uso dell’iperbole («È del poeta il fin la maraviglia...»).

              98 III, vii, 53 strait strossers: sono, propriamente, calzoni attillati; ma i kerns (fanti irlandesi) andavano
                 a gambe nude, coperti solo dalla propria pelle. E basta evocare l’Irlanda perché qualcuno tiri fuori i
                 bogs (“pantani”) di quel paese: ma qui si tratta di “pudende” e del rischio di malattie.
              99 III, vii, 60 Letteralmente, “porta i suoi propri capelli”: frequenti, fra gli elisabettiani, le polemiche su
                 parrucche e cosmetici, e le battute sulla caduta dei capelli (provocata dal mal francese).
            100 III, vii, 65 “Il cane è tornato al proprio vomito e la scrofa s’è lavata al pantano.” Frase proverbiale,
                 dalla Bibbia degli Ugonotti, usata anche in 2-Enrico IV e riferita alle plebi infide e volubili.
            101 III, vii, 81 faced out of my way: significa anche “costretto a invertire la marcia di fronte al nemico”.

            102 III, vii, 120 Letteralmente: “la frecciata dello sciocco parte prima del tempo”.  A fool’s bolt is soon
                 shot è detto proverbiale, come gli altri che precedono, e innesta un gioco di parole intraducibile tra
                 soon shot  (“scoccato  anzitempo”), shot  over  (“scoccato  fuori  bersaglio”)  e overshot  (“battuto  in
                 una gara di tiro al bersaglio”).
            103 III, vii, 151 Hall fa dire al Connestabile: «Togliete a un inglese, per un mese, il suo letto caldo, la
                 sua bistecca succolenta e la sua acida birra, lasciatelo soffrire per un mese il freddo e la fame, e
                 vedrete che se ne andrà anche il suo coraggio». E Shakespeare, in Edoardo III: «Togliete loro le
                 loro lombate di manzo, portate via i piumini dai loro letti, e subito gli passerà la voglia di muoversi,
                 come a altrettanti cavallacci sfiancati».
            104 IV,  3  La  tensione  controllata  di  questa  scena  notturna,  lo  straordinario  senso  di  attesa,  l’attività
                 febbrile e segreta, al balenare dei fuochi, fanno di essa uno dei più mirabili momenti del dramma; e
                 in  questa  “tenebra  fitta  e  densa  di  segreti  sussurri”  che  “colma  l’immensa  cappa  dell’universo”  si
                 avverte con un sottile brivido l’incombere di un pauroso dramma collettivo, con mille destini legati a
                 un  filo.  Non  mancano,  nell’evocazione  dei  due  accampamenti  contrapposti,  echi  dell’Iliade  (la
                 famosa traduzione del Chapman è uscita nel 1598); mentre nella descrizione della veglia del sovrano
                 −  come  più  avanti  (scena III)  nella  sua  esortazione  finale  prima  della  battaglia  −  si  esprime  in
                 memorabili  accenti  la  concezione  inglese  della leadership,  fondata  sull’esempio,  e  il  senso  di  una
                 comunità  di  uomini  liberi  −  o  che  tali  si  sentono  −  uniti  da  un  forte  spirito  di  identità  collettiva:
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