Page 1454 - Shakespeare - Vol. 2
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sfidare convenzioni classiche dure a morire, come le unità di tempo, di luogo
e d’azione. La soluzione è anche qui semplice, e al tempo stesso
audacemente innovativa: l’autore opera uno sdoppiamento. Da una parte il
drammaturgo, che si esprime nei personaggi e nelle situazioni, dall’altra il
poeta epico, nei panni del Coro, che presta alla vicenda la prospettiva storica,
l’afflato unificante, il giudizio morale. Le allocuzioni del Coro, come peraltro
tante vibranti orazioni di Enrico, esortano a straordinari slanci della mente e
del cuore, o sono evocazioni di grande respiro, anche pittorico e visuale,
dandoci il senso della grandiosità del soggetto. Una soluzione declamatoria −
si è da più parti obbiettato − di per sé non drammatica. Se il verso è
splendido, dev’esserlo per forza, visto che usurpa la funzione dell’azione
scenica. «Per quanto smagliante, non c’è descrizione che possa trasformare
uno spettacolo in trama, un affresco in tragedia»: così Mark Van Doren, il più
radicalmente negativo tra i critici maggiori. Ribatte Gary Taylor: «La poesia di
Enrico V, come quella dell’Iliade e dell’Odissea, è stata spesso criticata per le
sue virtù. Criticata da chi legge, per le stesse qualità che la rendono
superbamente efficace per chi la recita e per chi l’ascolta». E cosa c’è di «non
drammatico» in questa aperta e vittoriosa sfida al tempo e allo spazio? Se
vogliamo usare il termine «drammatico», cioè teatrale, in senso stretto, non
possiamo negare il carattere splendidamente «teatrale» dei Cori: che mirano,
in quell’angusto «O di legno» che è il teatro elisabettiano, al coinvolgimento
diretto dello spettatore − il quale non chiede di meglio che di sentirsi
coinvolto. E del resto i Cori registrano interpretazioni memorabili quanto
diversificate, nella storia del teatro inglese.
Lo «sdoppiamento» dell’autore offre argomenti ai detrattori di Enrico. «Come
drammaturgo, Shakespeare deve conquistare il suo pubblico. Come poeta,
deve dire la verità» − afferma Harold C. Goddard, secondo il quale il Coro si
limita a tramandare il mito, la leggenda del Re senza macchia; ma il vero
Enrico va cercato altrove, fra le righe del testo: sempre che lo si voglia
trovare. Poiché Shakespeare non ci dice cosa dobbiamo pensare del mondo e
dei suoi personaggi. Ce li mette davanti, e lascia allo spettatore il compito di
capire come realmente essi sono. Secondo il Goddard, il Coro ha la stessa
funzione delle musiche marziali e delle sostanze inebrianti con cui si suole
stordire i soldati prima dell’assalto. E tanto peggio per chi si lascia inebriare.
Ma il Coro esprime qualcosa di più di un’inebriante retorica, né è il caso di
dire che il Coro e Shakespeare parlino lingue diverse. Se c’è una cosa che
colpisce, in Enrico V, è l’unità di tono − quel tono scintillante e festevole a cui
si è accennato. Il dramma stesso appare ideato e composto secondo un