Page 1180 - Shakespeare - Vol. 2
P. 1180

simpatetico  che  desta  la  buona  fortuna,  la  felicità,  la  bellezza,  «ciò  che  è
          decoroso e conveniente in sé e rispetto alla Natura»: un’idea più adeguata,
          anche se non sufficiente, a indicare la commedia cortese e festosa che ebbe
          tanto successo sulle scene elisabettiane. Ma i teorici − nemmeno gli inglesi,

          ed è tutto dire − non osarono (o non osano?) mettere in dubbio la distinzione
          ortodossa tra i due modelli istituzionali: la tragedia che in stile alto tratta dei
          «migliori», la commedia che in stile medio-basso parla dei «peggiori», e per
          ciò stesso è inferiore alla prima; la tragedia «che ha come madre il dolore»,

          la commedia che è figlia del riso; la prima che comincia bene e finisce male,
          l’altra che mal comincia e ha un lieto fine.
          Quanto  a  Shakespeare  e  ai  suoi  contemporanei  professionisti  della  scena,
          essi adoperavano «tragedia» e «commedia» come etichette, ironizzavano sui

          generi, e non usavano farsi una malattia dei precetti dei sapienti. Non se ne
          curava molto Molière, se ne curavano poco anche gli autori di «comedias» del
          Siglo  de  Oro,  e  in  verità  il  problema  del  genere  non  ha  mai  preoccupato  i
          grandi  drammaturghi  da  Aristofane  a  Beckett.  Tant’è  vero  che  la

          «commedia», dice Leo Salingar, è stata sempre una cosa in teoria e un’altra
          in pratica. E in realtà vis tragica e vis comica, suggeriva Socrate alla fine del
          Simposio,  sono  due  facce  della  stessa  cosa.  Il  ridicolo,  il  terribile,  come  il
          gioioso e il pietoso, non sono nelle cose, sono luci proiettate dalla coscienza

          sulla condizione umana, che soprattutto nella ricreazione artistica s’alternano
          e si sovrappongono e nel suo punto più alto tendono a identificarsi. Il riso, il
          far  baldoria  (komazein)  li  troviamo  nel  bel  mezzo  d’una  tragedia,  e  una
          commedia  può  suscitare  pietà  e  paura.  All’occhio  cosmico  del  grande

          drammaturgo  un  eroe  tragico,  così  illuso  di  poter  superare  il  limite,  così
          egocentrico,  così  ignorante  di  sé  e  degli  altri,  può  apparire  comico,  e  per
          converso, come diceva Jonesco, il riso può essere più disperato del pianto. Il
          Campo di grano coi corvi di Van Gogh, afferma Balthus, a lui sembra quasi

          lieto, mentre tutti gli altri lo considerano terribile. Uno dei primi grandi cicli
          tragici, l’Orestea, come tutti sanno finisce bene, mentre parecchie commedie
          finiscono  malissimo.  Tant’è  vero  che  il  lieto  fine,  come  già  insegnava
          Montaigne, non è che «un passaggio», come la morte e la catastrofe, e ciò

          che davvero conta viene prima. E la commedia, scriveva Angelo Brelich del
          teatro greco, non è che il riflesso speculare della tragedia. In altre parole,
          comico  e  tragico  sono  prospettive  mentali,  angolazioni  cangianti
          dell’immaginazione che mette a fuoco una stessa realtà. E la visione comica

          può  essere  altrettanto  complessa  e  profonda  di  quella  tragica,  quando  per
          così dire il suo riso diventa il riso cosmico della dea Fortuna che gioca con i
   1175   1176   1177   1178   1179   1180   1181   1182   1183   1184   1185