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L’esistenza di un compiuto piano divino è garantita dalla fede, ma la ragione umana
può a sua volta, meditando a posteriori sui fatti, individuare tracce parziali di quel
misterioso disegno. La Città di Dio* di sant’Agostino è il testo classico di questa
teologia della storia, al quale attinge tutta la cultura del medioevo e ai cui motivi si
ispirano i ricorrenti sussulti del profetismo e del millenarismo cristiani. Anche dal
Vico la « scienza nuova », che è l’individuazione dei momenti necessari attraverso
cui passa e si fa la « storia ideale eterna », è definita come « una teologia civile
ragionata della provvedenza divina ». Hegel a sua volta vede la storia come «
realizzazione dello spirito universale », nella quale il compito di protagonista e di
guida spetta in ogni singola epoca a un popolo, investito dalla ragione universale del
diritto di essere « dominante ». E anche nel Croce, pur nella complessità delle
prospettive e nella tensione problematica, l’idea dello spirito universale come unico
attore della storia e dell’individuo come suo occasionale e contingente portatore
resta uno dei residui più vistosi dell’eredità hegeliana. Nella storia opera di Dio o
della ragione universale tutti i momenti sono necessari e positivi e la direzione
progressiva è garantita. Questa prospettiva di fatalismo ottimistico è stata
riconosciuta dai suoi critici anche nel marxismo, il quale tuttavia ha dato alle
componenti umanistiche e volontaristiche una accentuazione tale da costituire una
concezione più consistente della storia come sforzo cosciente per passare dal regno
del determinismo a quello della libertà.
Una diversa concezione è quella che, rifiutando tanto la nozione di casualità
insensata, quanto quella di progetto provvidenziale, vede nella storia una
successione di accadimenti in parte più o meno grande controllabili e prevedibili
dalle tecniche umane e orientati in direzioni che possono essere (ma non sono
necessariamente) progressive. Il « progresso » è qui una nozione carica di
implicazioni pratiche e fondata sul « privilegiamento » non arbitrario di certi valori.
Già Machiavelli discute nel Principe della varia incidenza della « virtù » e della «
fortuna » sul successo delle opere umane. I grandi illuministi francesi, a cominciare
da Voltaire, sono convinti che il progresso coincida con l’emancipazione della
ragione e hanno fiducia nell’esito positivo delle loro battaglie. Si tratta tuttavia di un
atteggiamento che non ignora la possibilità della sconfitta e l’ottimismo è il risultato
di una scelta pratica ragionevole, non il prodotto di una speciale garanzia.
Similmente Dewey ha sempre insistito, e con un pathos particolare negli ultimi
scritti, già condizionati dalle inquietudini angosciose dell’era atomica, sulla
crescente responsabilità delle scelte umane e sulla eventualità che la storia, vale a
dire l’intreccio delle azioni umane più o meno razionalmente progettate, prenda la
strada del regresso e del fallimento.
Fra la tesi della casualità e quella del disegno unitario si collocano infine posizioni,
come quelle del Dilthey e del Toynbee, che ritengono individuabili un significato e
una direzione teleologica solo nell’ambito di epoche conchiuse, ognuna costituente
un campo intelligibile a parte, regolato da propri valori. Almeno nella sua funzione
negativa, e cioè come rinuncia alla determinazione di un piano unico e come rifiuto
della nozione stessa di « storia universale », tale atteggiamento è oggi largamente