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Artemisia Gentileschi   di  Miette Mineo
Un’altra donna che si distingue nella difficile arte della pittura è Artemisia Gentileschi nata a Roma l’8 luglio 1593, figlia di Orazio, pittore che la istradò nell’arte del pennello, primogenita di sei figli. Il padre, originario di Pisa, dopo il trasferimento nell’Urbe perfezionò le sue capacità espressive, risentendo positivamente delle innovazioni del contemporaneo Caravaggio dal quale derivò l'abitudine di adottare modelli reali, senza idealizzarli o edulcorarli e, anzi, trasfigurandoli in una potente quanto realistica drammaticità.

A quei tempi Roma era piena di fermenti culturali che, in opposizione alla Riforma, miravano a riaffermare la posizione della Chiesa attraverso il restauro dei luoghi di culto, o la costruzione di nuovi edifici, immense piazze e palazzi gentilizi che ne rinverdissero la grandezza. Nonostante l'alta densità di mendicanti, prostitute e ladri, in città affluivano numerosissimi i pellegrini, con l'evidente intento di rafforzare la propria fede visitando i vari luoghi sacri, e di artisti, di cui molti fiorentini. Rimasta orfana di madre nel 1605 le toccò quindi di sostituirla nei confronti dei fratelli più piccoli, ma apprese dal padre l’arte di impastare i colori e riempire con essi le prime tele, dimostrando in ciò una grande versatilità ed un precoce talento. Acquisita una certa dimestichezza con gli strumenti del mestiere, Artemisia esercitò le proprie doti pittoriche attraverso la copia delle xilografie e dei dipinti che giravano negli atelier dell’epoca, ma soprattutto subì l’influenza caravaggesca, che aveva stupito il pubblico romano con gli “scandalosi” dipinti della cappella Contarelli, in san Luigi dei Francesi.

All’epoca Artemisia aveva solo sette anni, ed era assai improbabile che si recasse lei dal pittore; più accettabile l’idea che ne avesse assorbito la lezione rimanendo confinata tra le mura domestiche, guidata in questo dal padre; erano tempi in cui l’arte pittorica era una prerogativa esclusivamente maschile. Sta di fatto che la collaborazione padre-figlia si rivelò proficua e non tardò a dare i suoi frutti. È 1610, infatti, il primo cimento della giovane pittrice: Susanna e i vecchioni (1) è un’opera ben riuscita, in cui è presente non solo la lezione caravaggesca, ma anche l’influsso di Annibale Carracci. I consensi furono unanimi e concordi. Incoraggiato da un esordio così felice, Orazio Gentileschi allo scopo di perfezionarne ulteriormente la tecnica, pensò bene di affidare la figlia alla scuola di Agostino Tassi, detto lo smargiasso, virtuoso della prospettiva e del troemp-l’oeil , ma personaggio assai poco raccomandabile per la sua indole violenta e priva di freni morali e la sua inclinazione a frequentare postriboli. La scelta si rivelò infelice e gravida di conseguenze negative per la giovane pittrice che fu dal Tassi violentata e dovette soggiacere parecchie volte alle sue voglie, sperando in un matrimonio riparatore, ipotesi del tutto impraticabile perché il Tassi era già sposato. Tutto ciò avveniva tra il 1610 e l’11. Ma papà Gentileschi intentò causa per lo stupro compiuto contro la figlia ed iniziò un iter processuale tortuoso ed umiliante soprattutto per Artemisia che dovette subire mortificanti visite ginecologiche e torture che potevano compromettere la sua attività, mentre il Tassi assoldava testimoni contrari. Eppure Artemisia tenne duro, non ritrattò la deposizione e così il 27 novembre 1612 le autorità giudiziarie condannarono Agostino Tassi per «sverginamento» e, oltre a comminargli una sanzione pecuniaria, lo condannarono a cinque anni di reclusione o, in alternativa, all'esilio perpetuo da Roma, a sua completa discrezione. Com'è prevedibile, lo smargiasso optò per l'allontanamento, anche se non scontò mai la pena: egli, infatti, non si spostò mai da Roma, siccome i suoi potenti committenti romani esigevano la sua presenza fisica in città. Ne conseguì che la Gentileschi vinse il processo solo de iure e, anzi, la sua onorabilità a Roma era completamente minata: erano molti i romani a credere ai testimoni prezzolati del Tassi e a ritenere la Gentileschi una «puttana bugiarda che va a letto con tutti». Impressionante fu anche la quantità di sonetti licenziosi che videro la pittrice protagonista.

Ma il giorno successivo alla sentenza la pittrice sposò Pierantonio Stazzesi, pittore di modesta levatura con cui si trasferì a Firenze per dimenticare un passato troppo doloroso ed infamante ed iniziare una nuova stagione lavorativa. Il soggiorno alla corte medicea si rivelò molto positivo e fecondo di incontri e di opportunità. Basti pensare che Artemisia ebbe modo di conoscere Galileo Galilei, col quale intrecciò una fitta corrispondenza, Michelangelo Buonarroti il giovane (nipote del celebre artista).  E fu proprio lui ad introdurla nel mondo artistico dell’epoca, facendola conoscere ed apprezzare da ricchi committenti che cominciarono a commissionarle parecchi quadri, tra cui “L’allegoria dell’Inclinazione” (2) che le fruttò ben trentaquattro fiorini (3,4 e 5, altre tele di quel periodo).  L’apice del successo l’ebbe il 19 luglio 1616, quando venne ammessa alla prestigiosa Accademia del Disegno di Firenze, istituzione presso la quale sarebbe rimasta iscritta fino al 1620: fu la prima donna a godere di tale privilegio. Ma se il trasferimento a Firenze le diede modo di affermarsi autonomamente per le sue qualità senza farsi scudo del nome e della tutela paterna, com’era avvenuto precedentemente (basti pensare che adottò il cognome di Lomi) non altrettanto felice lo fu per la sua vita privata: il marito si rivelò freddo e distante, nonché pessimo amministratore del patrimonio familiare, costringendo la moglie a ricorrere alla benevolenza di Cosimo II per ripianare i debiti contratti. E ciò nonostante la nascita di ben quattro figli.

La disastrosa situazione economica spinse Artemisia a far ritorno a Roma, nel 1621; il rientro è comprovato da: “Ritratto di un gonfaloniere” (6) del 1622, una delle poche opere datate. Dopo la parentesi fiorentina non era più la sprovveduta giovanetta vittima dello stupro, ma un’artista affermata e stimata e come tale fu accolta nella capitale. A Roma, infatti, la Gentileschi ebbe modo di stringere relazioni amicali con eminenti personalità dell'arte, e sfruttò al massimo le possibilità offerte dal milieu pittorico romano per ampliare i propri orizzonti figurativi. Frutto di questo periodo è un’altra opera omonima “Giuditta con la sua ancella” (7) tela oggi custodita a Detroit. Nonostante la solida reputazione artistica raggiunta, la forte personalità e la rete di buone relazioni, il soggiorno di Artemisia a Roma non fu tuttavia così ricco di commesse come avrebbe desiderato. L'apprezzamento della sua pittura era forse circoscritto alla sua capacità di ritrattista e alla sua abilità di mettere in scena le eroine bibliche: erano a lei precluse le ricche commesse dei cicli affrescati e delle grandi pale di altare. Altrettanto difficile, per l'assenza di fonti documentali, è seguire gli altri spostamenti di Artemisia in questo periodo. È certo che tra il 1627 e il 1630 si stabilì, forse alla ricerca di migliori commesse, a Venezia: lo documentano gli omaggi che ricevette da letterati della città lagunare che ne celebrarono entusiasticamente le qualità di pittrice.

Nell’estate dello stesso 1630 si stabilì definitivamente a Napoli, seconda per fermenti culturali, solo a Parigi, con personaggi del calibro di Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Giovan Battista Marino nel campo della cultura, mentre per quanto riguarda la pittura erano passati di lì Caravaggio e Annibale Carracci. Napoli fu la sua seconda patria, dove avrebbe concluso la sua esistenza. Nella città partenopea si sarebbe dedicata per la prima volta anche alla pittura sacra, come Il “San Gennaro nell’anfiteatro d Pozzuoli” (8) ed altre tele dedicate a soggetti religiosi. Dove un breve soggiorno a Londra, scarsamente documentato, l’artista non si spostò più dalla città che ne accolse anche l’ultimo respiro, avvenuto nel 1653. Artemisia fu seppellita presso la Chiesa di san Giovanni Battista dei Fiorentini di Napoli, sotto una lapide che recitava due semplici parole: «Heic Artemisia». Attualmente questa lapide, così come il sepolcro dell'artista, risulta perduta in seguito alla ricollocazione dell'edificio. Sinceramente pianta dalle due figlie superstiti e da pochi intimi amici, i detrattori non persero invece occasione per colpirla con lo scherno di qualche verso avvelenato, alludente alle sue vicende passate.

1. Susanna e i vecchioni
2. L’allegoria dell’Inclinazione
3. Conversione della Maddalena
4. Giuditta e la sua ancella
5. Giuditta che decapita Oloferne
6. Ritratto di un gonfaloniere
 
7. Giuditta con la sua ancella
Talentuosa pittrice del tardo rinascimento capace di scelte moderne e coraggiose per l’epoca.
8. San Gennaro nell'anfiteatro di Pozzuoli
9. Allegoria della fama
10. Autoritratto
Clip audio su Artemisia Gentileschi

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